di Vincenzo Medde

Eugenio Tavolara, Modelli di teste

Eugenio Tavolara, Modelli di teste

La Camera dei deputati nella seduta del 4 dicembre 1951 approvò la legge istitutiva di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla disoccupazione, il cui compito venne così individuato: a) condurre una indagine approfondita sullo stato attuale della disoccupazione e della sottoccupazione in Italia, e sulle condizioni di vita e di capacità professionale dei disoccupati; b) determinare raffronti sulle prevedibili possibilità di occupazione e di emigrazione e le prospettive demografiche per il successivo quadriennio; c) suggerire le concrete possibilità, le condizioni e i mezzi per l’avviamento ad un’alta e regolare occupazione; d) predisporre le linee di un programma di sistematico miglioramento delle capacità professionali e di orientamento professionale per i disoccupati e le nuove leve di lavoro, di un miglioramento nelle condizioni di mobilità del mercato del lavoro.

Il numero dei componenti della Commissione, inizialmente di 15, fu poi elevato a 21; la Sardegna era rappresentata da Pietro Fadda (Democrazia Cristiana) e Giovanni Battista Melis (Partito Sardo d’Azione).

La monografia sulla Sardegna fu preparata da Paola Maria Arcari, docente di Filosofia del diritto, di Dottrine politiche e Statistica e preside della Facoltà di Giurisprudenza a Cagliari.

Da tale monografia è possibile estrapolare un modello esplicativo dei motivi per cui la Sardegna è rimasta indietro. Un modello di quasi settanta anni fa, ma ancora utile, mi pare, per comprendere le resistenze di lunga durata che ancora oggi non hanno del tutto esaurito i loro effetti di blocco.

1. Il circolo vizioso che ha condizionato lo sviluppo della Sardegna

«Un sedimento di scorie storiche appesantisce la situazione economica e demografica e tende a farla stagnare al fondo della depressione, nella quale cause ed effetti si alternano in un circolo vizioso: povertà e spopolamento, spopolamento e banditismo, denutrizione e scarso rendimento, mancanza di mano d’opera specializzata e scarsità di industrie» (Arcari: 670). Così Paola Maria Arcari nel 1953 restituiva i tratti distintivi della situazione sarda.

Il circolo vizioso era stato avviato dal prevalere di fattori storici (incursioni e malaria) che, operando sulla lunga durata, avevano fortemente ostacolato la naturale tendenza della popolazione a stabilirsi nelle zone normalmente favorite (in pianura e non lontano dal mare), come le «leggi tendenziali della componente geografica» avrebbero voluto.

2. Una società feudale dal punto di vista politico e pastorale dal punto di vista economico

I Sardi infatti, nel corso dei secoli, si erano allontanati dal mare e dalle pianure per vivere per lo più agglomerati e raramente in insediamenti sparsi. Solo più recentemente e ancora lentamente poteva essere rilevata una tendenza verso il mare e la pianura: dal 1824 al 1921 la percentuale della popolazione costiera era passata dal 21,3 al 25,5, mentre la distribuzione per altitudine era passata da una media di 277 ad una di 266 e nel 1929 la media era pari a 254. Nello stesso periodo in cui l’altitudine media dei luoghi abitati in Sardegna passava da 277 m. a 254 quella dei luoghi abitati in Italia passava da 244 a 227. Dai dati del censimento del 1936 emerge che la popolazione abitante in zone di pianura era pari al 35% nella Penisola e al 30% in Sardegna.

L’abbandono delle coste e delle terre più fertili della pianura aveva quindi causato nel corso dei secoli il calo consistente delle attività agricole e il conseguente e progressivo ripiegamento verso lo stato pastorale, sicché, durante la lunga dominazione aragonese la pastorizia era diventata dominante, per di più in un contesto d’uso collettivo delle terre che ostacolava l’impiego razionale e produttivo delle risorse. Inoltre, i vincoli e le interdipendenze tra feudalismo e pastorizia si erano rinsaldati nella durata del sostegno reciproco, sicché la Sardegna poteva dirsi una società feudale dal punto di vista politico e pastorale dal punto di vista economico.

3. Il ruolo dei Piemontesi

I Piemontesi tentarono di allentare tali vincoli combattendo sia il feudalismo che la pastorizia; ma, se era relativamente agevole abolire i diritti baronali, molto più difficile e complesso risultava il compito di stravolgere una struttura economica che coinvolgeva la maggioranza della popolazione e le condizioni d’uso della terra, che, per diventare più produttiva, aveva bisogno di capitali e lavoro, non mobilitabili nell’ambito dell’uso collettivo delle terre.

«La letteratura storiografica sarda è indirizzata ad una severa critica dell’opera di Carlo Alberto al quale si vede – non senza qualche sorpresa – rimproverare come un sopruso l’abolizione del feudalesimo. Non credo che si possa seriamente sostenere che la Sardegna avrebbe fatto un migliore ingresso nella storia dell’Italia unitaria conservando una organizzazione feudale: si può, tuttavia, e si deve riconoscere che un provvedimento legislativo era insufficiente a trasformare la composizione delle classi sociali o a far passare l’economia sarda dallo stato pastorale all’agricolo. La politica di Carlo Alberto veniva ad assumere, quale punto di partenza, quello che era stato altrove un punto di arrivo. In Europa la borghesia aveva creato la legislazione dell’ottantanove; in Sardegna la legislazione antifeudale avrebbe dovuto crear la borghesia» (Arcari: 663-4).

4. Una borghesia debole e poco produttiva

E una sorta di borghesia in effetti nacque, ma debole e poco produttiva, come poco produttiva era in realtà la terra sulla quale tale borghesia non poteva investire, come avevano fatto i ceti dominanti veneti e lombardi, il frutto, inesistente nell’Isola, di impegnativi traffici d’oltremare o di innovativi esperimenti industriali. Così, gruppi di agrari, sindaci, assessori ebbero sì la terra, ma non la forza finanziaria e neppure l’autorità sociale per guidare la grande trasformazione dallo stato pastoral-feudale a quello agricolo-capitalistico. Ciò che nacque fu una classe di piccoli proprietari caratterizzati da una «mentalità reddituaria» (Tofani: 122) e destinati a divenire, nel susseguirsi delle generazioni, sempre più piccoli per i successivi frazionamenti dell’asse ereditario; mentre il frazionamento eccessivo, la polverizzazione della proprietà, diventò di fatto un altro dei grandi ostacoli che condizionavano lo sviluppo economico dell’Isola.

5. Cattiva distribuzione della proprietà e della popolazione

In effetti, la piccola proprietà era prevalente in tutta l’Isola, sempre che la proprietà venga considerata «secondo il profilo del reddito imponibile piuttosto che sotto quello della superficie» (INEA cit. in Arcari: 667). Il fatto è che quella sarda è una terra povera dal punto di vista agrario, ciò che fa rientrare nella categoria della piccola proprietà dal punto di vista del reddito anche quella che sarebbe estesa dal punto di vista della superficie. Frazionamento significa anche esiguità degli appezzamenti, quando la media proprietà è costituita di lotti sparsi, con grave intralcio all’opera di bonifica.

Un altro dato essenziale da prendere in considerazione per comprendere la realtà economica sarda è il rapporto tra proprietà frazionata e distribuzione territoriale della popolazione. Il piccolo appezzamento, là dove la popolazione vive in case sparse al centro della sua terra, ha un significato tutto diverso da quello che esso assume dove la popolazione vive accentrata lontana dalla terra. Nel primo caso, da un modesto appezzamento se ne ricaverà il reddito massimo (anche se sarà troppo piccolo per l’impiego di macchine e di moderni mezzi di cultura) perché la vicinanza della famiglia darà modo al lavoratore di trarre dal fondo anche tutti quei prodotti che consentono una maggiore agiatezza. Nel secondo caso invece che un maggior sfruttamento della terra, si avrà un maggior logorio della macchina umana e la impossibilità per il piccolo proprietario che deve raggiunger con grande fatica il suo lontano campicello di trarne un adeguato compenso (Arcari: 669).

A questi elementi strutturali – cattiva distribuzione della proprietà e della popolazione (lontana dalle pianure e dal mare e con insediamenti sparsi) –, esito del prevalere dei fattori storici su quelli geografici, si aggiungeva anche la cattiva distribuzione delle colture.

6. La cattiva distribuzione delle colture

«La Sardegna è una delle sei regioni italiane in cui seminativi e colture legnose specializzate non raggiungono la metà della superficie; fra queste sei, solo quattro hanno una percentuale inferiore alla Sardegna, dove la montagna occupa dal 40 al 100% dell’intera superficie. In tutte queste regioni, alla più o meno modesta percentuale di seminati e di colture legnose, fa riscontro una forte percentuale della superficie boschiva. In Sardegna al 29,9% di seminativi e colture legnose, fa riscontro soltanto un modesto 12,7% di superficie boschiva. Questa cifra qualifica la Sardegna come la meno coltivata e la più disboscata regione d’Italia.

Non è il suo il disboscamento di popoli che abbiano troppo navigato, è il disboscamento di una regione in cui le greggi hanno, col loro lento e silenzioso brucare, che dura da secoli, conteso la terra agli uomini e alle piante; è così che si percorrono in Sardegna lunghi chilometri senza incontrare né una casa né una pianta né un uomo. Certo, al disboscamento della Sardegna ha concorso la speculazione, ma è pur sempre la debolezza della struttura economica che fa della Sardegna una facile preda della speculazione.

Questa debolezza è confermata anche dai dati che più si connettono all’allevamento: mentre, infatti, la Sardegna ha una percentuale di superficie a prati permanenti inferiore all’1%, è la regione d’Italia che ha la più elevata percentuale di prati pascolo e pascoli permanenti, ed anche in questa categoria i prati pascolo non rappresentano che il 20% dei pascoli permanenti. La nessuna corrispondenza fra prati e pascoli (corrispondenza che esiste invece per quasi tutte le altre regioni) rende impossibile uno sviluppo dell’allevamento in forma razionale, e abbandona le sorti del bestiame all’andamento dell’annata agraria e alla fortuna delle precipitazioni» (Arcari: 639-640).

7. Il «soccorso di un impulso esterno»

Le vicende storiche che avevano ostacolato o annullato le ragioni della geografia avevano anche determinato quel circolo vizioso che ancora negli anni Cinquanta inchiodava la Sardegna allo spopolamento e alla povertà. Dunque, concludeva l’Arcari, assenti o troppo deboli i fattori interni autopropulsivi, solo il «soccorso di un impulso esterno» avrebbe potuto proiettare l’Isola fuori del sottosviluppo immettendola veramente nella più evoluta economia continentale (Arcari: 690).

Nel modello esplicativo dell’arretratezza in Sardegna dell’Arcari risultavano prevalenti i fattori di lunga durata: inesistenza di una borghesia imprenditrice, debolezza dell’agricoltura, prevalenza della pastorizia, blocco sinergico pastoral-feudale, cattiva distribuzione della popolazione, della proprietà e delle colture. La forzatura di tale blocco per l’avvio di un’inversione di tendenza era affidata dall’Arcari ad un intervento esterno all’economia immobile.

Bibliografia

Paola Maria Arcari, Sardegna, in Commissione parlamentare d’inchiesta sulla disoccupazione. Monografie regionali, vol. III, t. 4, Roma 1953.

Mario Tofani, L’economia agraria sarda: iniziative e sviluppi, in Camera di commercio di Sassari (a cura di), Atti del 5° Convegno nazionale per l’emigrazione 10-14 maggio 1954, Gallizzi, Sassari 1956.