di Vincenzo Medde


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1. I Sovietici ritardano l’invasione della Polonia concordata con i Nazisti

Con il patto Molotov-Ribbentrop e il protocollo segreto del 23 agosto 1939, integrati successivamente dal Trattato confinario e di amicizia del 28 settembre con i relativi protocolli segreti, Tedeschi e Sovietici avevano raggiunto l’accordo per spartirsi la Polonia.

Hitler aveva dato inizio all’invasione il 1° settembre, mentre Stalin sembrava non aver fretta di occupare le regioni polacche che sarebbero finite sotto il suo dominio (vedi cartina). Così, il 3 settembre il ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop inviò un telegramma della massima urgenza all’ambasciatore a Mosca Friedrich Schulenburg affinché facesse presente al ministro degli esteri e presidente del Consiglio dei commissari del popolo Vjačeslav Molotov la necessità che anche l’Armata Rossa occupasse i territori che i patti sottoscritti avevano assegnato all’Unione Sovietica. Scriveva Ribbentrop: «Ci aspettiamo di battere in modo definitivo l’esercito polacco in poche settimane. Dovremmo quindi tenere sotto occupazione militare il territorio che a Mosca è stato indicato come sfera di interesse tedesca. Naturalmente però, sempre per motivi militari, dovremmo continuare a combattere contro le forze polacche che si trovano nel territorio polacco appartenente alla sfera di interesse russa. Vi prego di discuterne subito con Molotov e di vedere se l’Unione Sovietica non ritiene auspicabile che le forze russe si muovano al momento opportuno contro le forze polacche nella sfera di interesse russa per occuparne il territorio. A nostro parere questo sarebbe non solo un sollievo per noi, ma anche nell’interesse sovietico e andrebbe nel senso degli accordi di Mosca». [Documents VII: 540-541/567][ 1 ]

La Polonia occupata da Tedeschi e Sovietici.

La Polonia occupata da Tedeschi e Sovietici.
(Fonte: Gross 2002)

Mi pare qui opportuno riprendere ciò che ha scritto lo storico polacco-americano Jan Tomasz Gross: «I Sovietici, nonostante il loro minore contributo militare, furono gli autori principali di tutti i documenti russo-tedeschi che segnarono il destino della Polonia tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 1939». [Gross 2002: 12]

Molotov riferì a Schulenburg che avrebbe immediatamente affrontato la questione con il governo sovietico per dare una rapida risposta [Documents VIII: 2-3/2], la quale si concretizzò a questo modo: «Siamo d’accordo con voi che al momento opportuno sarà assolutamente necessario per noi avviare un’azione concreta. Siamo dell’opinione, tuttavia, che questo momento non sia ancora arrivato. È possibile che ci sbagliamo, ma ci sembra che per fretta eccessiva potremmo nuocere alla nostra causa e promuovere l’unità tra i nostri oppositori. Comprendiamo che, mentre le operazioni procedono, una delle parti o entrambe potrebbero essere costrette a superare temporaneamente la linea di demarcazione tra le rispettive sfere di interesse; ma tali casi non devono impedire la rigorosa esecuzione del piano adottato». [Documents VIII: 4/5]

Ma il 9 settembre l’Armata Rossa non aveva ancora varcato la frontiera polacca e Molotov posponeva ancora la data dell’intervento con la vaga indicazione «entro i prossimi giorni». [Documents VIII: 35/37]

Schulenburg aveva l’impressione che Molotov promettesse quel che l’Armata Rossa non era ancora in grado di fare, ma poi il ministro degli Esteri sovietico spiegò i veri motivi del ritardo. Il governo sovietico era in attesa che la Wehrmacht arrivasse a un punto tale di distruzione della Polonia che l’Urss potesse pubblicamente affermare che doveva intervenire in aiuto dei fratelli Ucraini e Bielorussi minacciati dai Tedeschi; questo per rendere l’intervento dell’Armata Rossa plausibile alle masse ed evitare che apparisse come un atto di aggressione [Documents VIII: 44]. Per rendere credibile questa motivazione era però della massima importanza che i Tedeschi prendessero Varsavia, sede del governo, perciò Molotov chiedeva di essere tempestivamente informato circa i tempi della conquista della capitale polacca. [Documents VIII: 61/63]

Replicando a Molotov, – qualora l’Urss non volesse intervenire militarmente nell’area che il protocollo del 23 agosto le assegnava – il 15 settembre Ribbentrop propose di creare uno stato fantoccio nella forma un protettorato sovietico. Rifiutava poi l’idea di Molotov di giustificare l’intervento dell’Armata Rossa con la necessità di proteggere Ucraini e Bielorussi dai Tedeschi: in primo luogo perché non corrispondeva alla realtà dei fatti e in secondo luogo perché avrebbe fatto apparire Germania e Urss come nemici. In alternativa, propose la diffusione del seguente comunicato congiunto: «In considerazione dell’evidente frantumazione delle nazionalità che vivono nell’ex stato polacco, il governo del Reich e il governo dell’URSS ritengono necessario porre fine alle intollerabili condizioni politiche ed economiche esistenti in questi territori. Considerano come loro compito congiunto ristabilire la pace e l’ordine in queste loro sfere naturali di influenza, e realizzare un nuovo ordine mediante la creazione di frontiere naturali e di organizzazioni economiche efficienti». [Documents VIII: 69/70]

Lo storico britannico Norman Davies spiega il ritardo dell’invasione sovietica con l’andamento della guerra di confine tra l’Urss e il Giappone: «La vera ragione del ritardo sembrerebbe risiedere nell’estremo oriente. Stalin era in attesa di notizie che i Giapponesi avevano definitivamente firmato una tregua sulla frontiera della Manciuria. Non poteva permettersi due guerre contemporaneamente. La notizia della tregua arrivò a Mosca il 15. Il 16 Stalin diede ordine alle forze sovietiche di invadere la Polonia. E il 17, all’alba, l’Armata Rossa emerse dalla nebbia mattutina senza preavviso». [Davies 2006: 78]

Steven Zaloga, esperto americano di tecnologie militari, così riassume: il ritardo di Stalin nell’attaccare la Polonia fu in parte dovuto all’incertezza sulla reazione degli alleati occidentali, al ritmo inaspettatamente rapido dell’avanzata tedesca, alle operazioni militari in Estremo Oriente e al tempo necessario per mobilitare l’Armata Rossa. Dopo la decisiva vittoria sovietica sui Giapponesi a Khalkin Gol, il 15 settembre fu firmato un armistizio con il Giappone e l’intelligence sovietica riferì che armate tedesche stavano già operando a est della proposta linea di demarcazione sovietico-tedesca. Solo allora Stalin decise di ordinare l’invasione della Polonia. [Zaloga: 80]

Il 17 settembre, alle 2:00 del mattino, Stalin, presente anche Molotov, comunicò a Schulenburg che di lì a quattro ore, alle ore 6:00, l’Armata Rossa avrebbe varcato le frontiere per invadere la Polonia da est. Stalin lesse a Schulenburg la nota che avrebbe consegnato all’ambasciatore polacco, nota che l’ambasciatore tedesco chiese di riformulare in alcuni punti; Stalin immediatamente corresse il testo finché Schulenburg non si dichiarò d’accordo. [Documents VIII: 79-80/80]

La nota di Stalin (concordata con Schulenburg), firmata da Molotov, venne letta dal vice Commissario agli Esteri Vladimir P. Potemkin all’ambasciatore polacco Wacław Grzybowski. Questo il testo integrale:

«La guerra polacco-tedesca ha rivelato la bancarotta interna dello Stato polacco. In dieci giorni di operazioni militari, la Polonia ha perso tutti i suoi bacini industriali e i suoi centri culturali. Varsavia non esiste più come capitale della Polonia. Il governo polacco è crollato e non dà segni di vita. Ciò significa che lo Stato polacco e il suo governo hanno di fatto cessato di esistere. Pertanto, i trattati conclusi tra l’URSS e la Polonia hanno perso il loro valore.
Abbandonata al suo destino e lasciata senza guida, la Polonia è diventata un campo fertile per macchinazioni e sorprese, che possano costituire una minaccia per l’URSS. Ecco perché, avendo finora osservato la neutralità, il governo sovietico non può più rimanere neutrale di fronte a questi fatti. Né può rimanere indifferente quando i suoi fratelli di sangue, gli Ucraini e i Bielorussi che vivono in territorio polacco, abbandonati al loro destino, sono lasciati senza protezione.
Alla luce di questo stato di cose, il governo sovietico ha dato istruzioni al Comando supremo dell’Armata Rossa di ordinare alle truppe di attraversare la frontiera e di prendere sotto la loro protezione le vite e le proprietà della popolazione dell’Ucraina e della Russia bianca occidentale.
Allo stesso tempo, il governo sovietico intende fare ogni sforzo per liberare il popolo polacco dalla guerra sciagurata in cui lo hanno gettato i suoi stolti leader e per dargli l’opportunità di vivere una vita pacifica». [cit. in Gross 2002: 295-296 nota n. 26; Cienciala 2003: 212]

L’ambasciatore Grzybowski, rifiutando di prenderne atto, lasciò la nota sul tavolo e il documento fu inviato avanti e indietro alcune volte tra il Commissariato per gli Affari Esteri e l’ambasciata polacca [Gross 2002: 296]. La mattina del 17 settembre, in un intervento alla radio, Molotov ne rese pubblico il contenuto.

Anche se i Tedeschi parteciparono, attraverso Schulenburg, alla stesura della nota sovietica alla Polonia, erano insoddisfatti del loro alleato. Essi volevano pubblicizzare la loro collaborazione e pubblicare un comunicato comune sulla situazione in Polonia. Ma su insistenza dei Sovietici la stretta collaborazione tra i due governi fu tenuta segreta. L’URSS voleva a tutti i costi evitare di apparire come un aggressore. Molotov ammise che l’argomento addotto dal governo sovietico – difendere Ucraini e Bielorussi – urtava la sensibilità tedesca, ma chiese, data la difficile situazione del governo sovietico, di non bloccarsi su questo aspetto. [Grudzinska, Gross: 5]

La segretezza dell’accordo nazi-sovietico prima e poi il differimento dell’invasione contribuì, nella percezione comune, a occultare il nesso che legava l’aggressione sovietica a quella nazista e allo scatenamento della Seconda guerra mondiale, attribuendo quest’ultimo al solo intervento tedesco. La nota di Stalin, seppure concordata con i Nazisti, fu utilizzata con successo per accreditare il mito dell’Urss potenza pacifica, in armi solamente per difendere Ucraini e Bielorussi oppressi dai signori polacchi.

E questo anche se l’invasione sovietica violava almeno cinque trattati internazionali, sia bilaterali che multilaterali. La prima categoria comprendeva il trattato di pace con la Polonia, firmato a Riga il 18 marzo 1921 e il Patto di non aggressione firmato a Mosca il 25 luglio 1932, esteso il 5 maggio 1934 fino al 31 dicembre 1945. La seconda categoria comprendeva il Patto della Società delle Nazioni del 28 giugno 1919 (l’URSS fu ammessa alla Lega nel 1934); il Trattato sulla rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale (Patto Kellogg-Briand), firmato a Parigi il 27 agosto 1928; e la Convenzione sulla definizione di aggressione, firmata a Londra il 3 luglio 1933. [Szawłowski: 30; Cavallucci 2010: 362]

La stampa britannica protestò contro l’intervento sovietico, anche se le espressioni di indignazione morale risultarono decisamente attenuate. Lloyd George, criticando una Polonia che mostrava il «peggiore sistema feudale d’Europa», trovò che questo era il motivo per cui le «truppe russe in avanzamento» venivano «acclamate dai contadini come liberatrici». Winston Churchill sosteneva che la “sicurezza della Russia” richiedeva che gli eserciti sovietici si posizionassero sulla nuova linea di demarcazione – «in ogni caso la linea c’è ed è stato creato un fronte orientale che la Germania nazista non osa assalire». Sebbene la prospettiva fosse remota, Lloyd George mise in guardia contro l’impegno “avventato” della Gran Bretagna contro la Russia. [Erickson: 21]

2. Stalin spiega perché l’Urss si è alleata con i Nazisti e perché è bene distruggere la Polonia

Le ragioni del patto con i Nazisti e dell’aggressione alla Polonia, con il progetto di annettere all’Urss le regioni orientali, furono chiarite con la brutalità consueta da Stalin stesso in occasione di un abboccamento chiestogli da Georgi Dimitrov, segretario del Comintern, («per prendere una decisione corretta abbiamo bisogno più che mai dell’aiuto immediato e del consiglio del compagno Stalin» [cit. in Narinski: 13]). Stalin, in presenza di Molotov e Zdanov, il 7 settembre 1939 gli accordò un colloquio, dal quale emerse chiaramente che la strategia antifascista e la priorità della lotta contro Hitler erano state abbandonate: la Germania nazista doveva essere considerata ormai come un alleato oggettivo della rivoluzione socialista, dato che l’accordo con Hitler consentiva lo smantellamento del Trattato di Versailles e la cancellazione di Brest-Litovsk con l’aiuto di quella stessa Germania che aveva imposto a Lenin gli umilianti sacrifici territoriali di quel trattato. [Furet: 365-367].

Ma, per un giudizio più documentato, si riproduce qui appresso il resoconto del colloquio stilato da Dimitrov. Da tenere a mente che la Gran Bretagna e la Francia avevano dichiarato guerra alla Germania il 3 settembre 1939, in risposta all'invasione della Polonia da parte della Germania nazista il 1° settembre.

Stalin. «- La guerra si svolge tra due gruppi di paesi capitalistici (poveri e ricchi in relazione alle colonie, alle materie prime ecc.) per la spartizione del mondo, per il dominio del mondo!
- Noi non siamo contrari al fatto che si accapiglino per benino e che si sfianchino l’uno con l’altro.
- Non è male se per mano della Germania venisse scossa la posizione dei paesi capitalistici più ricchi (in particolare l’Inghilterra).
- Hitler, senza capirlo e senza volerlo lui stesso, scuote e mina alle basi il sistema capitalistico.
- La posizione dei comunisti al potere è diversa da quella dei comunisti all’opposizione.
- Noi siamo padroni in casa nostra.
- I comunisti nei paesi capitalistici sono all’opposizione, lì la padrona è la borghesia. Noi possiamo manovrare, sospingere una parte contro l’altra, perché si sbranino meglio.
- Il patto di non aggressione in una certa misura aiuta la Germania.
- In un momento successivo sospingere l’altra parte.
- I comunisti dei paesi capitalistici si devono pronunciare con decisione contro i loro governi, contro la guerra. Prima della guerra la contrapposizione tra fascismo e regime democratico era assolutamente giusta.
- In tempo di guerra tra potenze imperialistiche questo non è più giusto.
- La divisione degli Stati capitalistici in fascisti e democratici ha perso il significato precedente.
- La guerra ha provocato una svolta radicale.
- Il fronte popolare unitario di ieri doveva alleviare la posizione degli schiavi nel regime capitalistico.
- Nelle condizioni della guerra imperialistica si pone la questione della liquidazione della schiavitù!
- Rimanere oggi sulle posizioni di ieri (fronte popolare unitario, unità della nazione) significa scivolare sulle posizioni della borghesia.
- Questa parola d’ordine cade.
- Lo Stato polacco prima (nella storia) era stato uno Stato nazionale. Perciò i rivoluzionari lo difendevano contro le spartizioni e l’asservimento.
- Adesso è uno Stato fascista, opprime gli ucraini, i bielorussi ecc.
- Nella situazione attuale la distruzione di questo Stato significherebbe uno Stato borghese fascista di meno!
- Che cosa ci sarebbe di male se, come effetto della sconfitta della Polonia, noi estendessimo il sistema socialista a nuovi territori e popolazioni?». [Dimitrov: 194; si vedano anche Narinski: 13-14; Furet: 363-364; Zaslavsky: 15-16; Le Parti communiste français]

Dimitrov. La posizione sovietica – abbandono della strategia antifascista e della lotta contro Hitler, lotta invece contro i governi inglese e francese, la cui difesa della Polonia è solo imperialismo mascherato – venne imposta anche ai partiti comunisti. Il 9 settembre, per conto del Comintern e dunque di Stalin, Dimitrov inviò al Partito comunista francese il seguente telegramma: «Guerra attuale [dopo l’invasione della Polonia, il 3 settembre 1939 Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania] è una guerra imperialista ingiusta provocata da borghesi di tutti i paesi belligeranti. Classe operaia e partiti comunisti non devono sostenere questa guerra. […] Proletariato mondiale non deve difendere Polonia fascista. […] Guerra ha cambiato profondamente situazione: vecchia distinzione tra Stati fascisti e sedicenti democratici ha perduto senso politico. Necessario cambiare tattica. In tutti i paesi belligeranti, nella fase attuale della guerra, comunisti devono dichiararsi contro la guerra, smascherare il suo carattere imperialista, votare contro i crediti militari, dire alle masse che la guerra comporterà miseria e sfruttamento aggravati. […] Partiti comunisti, soprattutto quelli di Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Belgio la cui linea è in contraddizione con la nostra devono al più presto correggere la loro linea» [cit. in Le Parti communiste français, 9 septembre 1939].

Molotov. Il significato dell’alleanza nazi-sovietica venne illustrato ufficialmente, con l’aggiunta dell’irrisione, da Molotov il 31 ottobre 1939 al Soviet supremo dell’Urss: «Vale la pena segnalare la disfatta militare della Polonia e la disgregazione dello Stato polacco. Gli ambienti governativi della Polonia hanno non poco decantato la “solidità” del loro Stato e la “potenza” del loro esercito. Ma è bastato che la Polonia ricevesse due brevi colpi, prima dall’esercito tedesco e poi dall’Armata Rossa perché nulla restasse di quest’aborto del Trattato di Versailles che viveva dell’oppressione delle nazionalità non polacche. La “politica tradizionale” polacca del barcamenarsi senza principi tra la Germania e l’Urss ha rivelato le sue carenze e il suo completo fallimento. Ognuno capisce che non è proprio il caso di ripristinare l’antica Polonia. Così pure è senza senso continuare la guerra con il pretesto di ripristinare il vecchio Stato polacco». [Cit. in Le Parti communiste français: 31 octobre]

La stampa e la propaganda sovietiche per tutto il 1940 continuarono a presentare la Germania come una “potenza pacifica” opposta ai “guerrafondai” francesi e inglesi, evitando, inoltre, di fare parola delle violenze naziste contro gli Ebrei. [Snyder 2015: 391; Werth: 355]

3. La Polonia orientale al momento dell’invasione

L’area che i Sovietici occuparono dopo l’invasione si estendeva per 200.000 kmq circa con 13,7 milioni di abitanti che componevano un complicato mosaico etnico, religioso, linguistico: 5 milioni erano Polacchi, 4,4 milioni ucraini e oltre 1,2 milioni bielorussi [Ciechanowski in Leslie: 214]. Gli Ucraini erano in netta maggioranza nei voivodati[ 2 ] di Stanisławów, Tarnopol e Leopoli che costituivano la Galizia orientale. Nella parte centrale, Polesia e Wołyń, assieme alla maggioranza bielorussa vivevano minoranze di Polacchi (15% circa) e Ucraini. Nella parte settentrionale, nei voivodati di Białystok, Vilnius e Nowogródek, i Polacchi erano in maggioranza, di fronte a una consistente minoranza bielorussa [Gross 2002: 4]. Gli Ebrei residenti erano 1.300.000 circa, 1.600.000 se si aggiungono 300.000 rifugiati. [Siekierski: 113]

Famiglia  di deportati polacchi in Unione Sovietica.

Famiglia di deportati polacchi in Unione Sovietica.
(Fonte: Jolluck)

Al mosaico etnico corrispondeva un mosaico di religioni: quasi tutti i Polacchi erano cattolici romani; gli Ebrei aderivano alla religione mosaica; gli Ucraini nella Galizia orientale erano greco-cattolici, anche se a Wołyń erano ortodossi, così come i Bielorussi e gli abitanti della Polesia.

Il governo polacco non aveva mai mostrato grande attenzione ai diritti delle minoranze, anche quando queste rappresentavano una parte importante della popolazione totale. Ha scritto in proposito lo storico J.T. Gross: «Non c'è bisogno che mi soffermi sulla triste storia delle politiche successive delle amministrazioni polacche nei confronti delle minoranze nazionali. L’unico possibile punto di controversia è l’entità della discriminazione ufficiale, mai la sua esistenza. E tutte le malefatte subite dalle minoranze nazionali divennero una componente particolarmente importante del clima socio-politico in quei territori dove le minoranze erano effettivamente la maggioranza, cioè nell’area occupata dai sovietici nel 1939. Ma nonostante le ingiustizie, nonostante il terrorismo dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN) e il controterrorismo a cui ricorse lo Stato polacco, nonostante la sistematica polonizzazione del sistema scolastico e la conversione delle chiese ortodosse in cattoliche romane con falsi pretesti, nonostante il numero chiuso e l’esclusione degli Ebrei dalle professioni, nonostante tutto questo e altro, la vita materiale, spirituale e politica delle minoranze nazionali nella Polonia tra le due guerre era più ricca e complessa di quanto non sia mai stata prima e dopo. Una meravigliosa testimonianza di questa vitalità può essere trovata in una fonte concepita, purtroppo, nello spirito del lutto e del ricordo delle cose passate: i libri commemorativi ebraici e ucraini». [Gross 2002: 6]

Le minoranze nazionali nella Polonia tra le due guerre infatti avevano creato una fitta rete di istituzioni politiche, economiche, culturali, religiose che orientavano e sostenevano una vivace attività comunitaria. Non solo queste organizzazioni erano numerose, erano anche in competizione, segno sicuro di pluralità e robustezza; ad esempio, sionisti, bundisti, assimilazionisti e Agudas Israel si contendevano aspramente il sostegno all’interno della comunità ebraica [ 3 ].

Le cifre delle pubblicazioni a stampa illustrano efficacemente la vivacità e la ricchezza di tale pluralismo. Nel 1931 le pubblicazioni non periodiche (libri soprattutto) furono 920 in yiddish e 211 in ebraico; oltre 300 quelle ucraine, 264 nel solo voivodato di Leopoli; 33 bielorusse nel voivodato di Vilnius. Nel 1932 c’erano 83 periodici in lingua ucraina in Polonia, 9 periodici in bielorusso, 136 in yiddish e 13 in ebraico. [Gross 2002: 7]

D’altra parte, vale la pena osservare, le condizioni della maggior parte degli Ucraini, Bielorussi e Ebrei della Polonia era ancora molto migliore di quella dei loro parenti etnici oltre il confine orientale. La collettivizzazione forzata dell’agricoltura da parte di Stalin nei primi anni ‘30 costò milioni di vite, per lo più ucraine. Gli Ebrei sovietici godevano di diritti civili limitati, non erano liberi di praticare la loro religione e persero le loro istituzioni comunitarie. [Cienciala 2007: 22]

3.1. Situazione economica e sociale

Questo mosaico di differenze etniche, religiose e linguistiche si collocava all’interno di una struttura socio-economica scarsamente sviluppata – la Polonia orientale era la regione più arretrata di un paese arretrato, [Gross 2002: 4] – che offriva poche opportunità di impiego e magre risorse non sempre in grado di soddisfare i bisogni essenziali. Mentre gli abitanti delle zone rurali costituivano il 72% della popolazione totale della Polonia, nell’area poi occupata dai Sovietici la percentuale saliva a un impressionante 81%. [Gross 2002: 5]

In tale area, i raccolti delle principali colture – grano, segale, avena, orzo, patate e barbabietole da zucchero – erano inferiori del 10-20% rispetto al resto del paese. La frammentazione delle aziende agricole, ad eccezione dei voivodati di Białystok e Vilnius, era più accentuata; nella Galizia orientale la maggior parte delle aziende agricole occupava meno di 2 ettari. La mortalità infantile era sostanzialmente più alta nei voivodati meridionali e orientali che in qualsiasi altra parte della Polonia. Il consumo di carne era considerevolmente al di sotto della media nazionale di 20 chilogrammi pro capite all’anno; nei voivodati di Stanisławów e Tarnopol si riduceva della metà, e in alcune contee oscillava tra 4,3 e 5,1 chilogrammi. Una monografia intitolata Il bambino della campagna polacca (Varsavia, 1934) concludeva che l’alimentazione dei bambini nella Polonia orientale era peggiore che in qualsiasi altra regione del paese. [Gross 2002: 294 nota 6].

Più di due terzi degli edifici della zona erano privi di linee fognarie, condutture idriche, elettricità e gas mentre la densità dei residenti per stanza era superiore alla media nazionale in tutti i voivodati tranne che in quello di Białystok. Di conseguenza, la sovrappopolazione nelle campagne polacche (secondo alcune stime, il 42% della popolazione rurale era in eccesso), risultava ancora più paralizzante nella metà orientale del paese. Nel 1931 circa un quarto della popolazione polacca non sapeva né leggere né scrivere. Il numero saliva a circa il 50 per cento in Polesia e Volinia, si aggirava intorno a un terzo della popolazione totale nei voivodati di Tarnopol, Stanisławów e Vilnius, e raggiungeva la media nazionale solo nei voivodati di Białystok e Leopoli.

C’era inoltre la povertà dei lavoratori autonomi nelle piccole città, mercanti, artigiani e venditori ambulanti, per lo più ebrei. [Gross 2002: 5].

4. 17 settembre 1939, l’Armata rossa invade la Polonia

L’11 settembre il maresciallo Edward Rydz-Śmigły, comandante in Capo delle forze armate, aveva ordinato che le residue forze polacche incalzate dalla Wehrmacht dopo l’attacco del 1° settembre si ritirassero in un’area nell’estremo sud del paese in prossimità della frontiera con la Romania. L’intenzione era quella di preservare le truppe in attesa che i Francesi iniziassero l’offensiva stabilita nei patti . [Zaloga, Gerrard: 78-79]

Ma tali speranze vennero a cadere quando, il 17 settembre, l’Armata Rossa diede inizio all’invasione della Polonia orientale con uno schieramento forte di circa venticinque divisioni di fucilieri, sei divisioni di cavalleria, dodici brigate corazzate, 3789 carri, duemila aerei da combattimento, 380 autoblindo per una forza complessiva di 466.516 uomini [Zaloga, Gerrard: 80]. Claudia Weber stima che le forze sovietiche assommassero a circa 600.000 soldati, 4000 carri armati, 2000 aerei e più di 5500 pezzi di artiglieria [Weber: 79].

Per far fronte all’invasione tedesca la Polonia aveva concentrato ad ovest il grosso delle sue forze armate, sguarnendo il fronte orientale e i confini con l’Unione Sovietica, presidiati dal KOP (Corpo di difesa delle frontiere), per altro a ranghi ridotti e male armato.

Nei giorni che seguirono il 17 settembre 1939, quando vennero diffuse le prime notizie dell’invasione sovietica, il Comando polacco – che si trovava a Kolomyja, a sud-est di Leopoli, vicino al confine rumeno – ricevette richieste urgenti da vari comandanti perché impartisse indicazioni su come comportarsi. Tali richieste e la confusione che regnava inizialmente in alcuni luoghi derivavano in gran parte dal fatto che le truppe sovietiche, mascherando le loro reali intenzioni, spesso sventolavano bandiere bianche, salutavano i soldati polacchi, fingevano di andare contro i Tedeschi. Molti Polacchi, quindi, inizialmente si illusero che i Sovietici avessero deciso di intervenire contro la Germania, tant’è che in diversi casi le autorità locali invitarono la popolazione ad accogliere i Sovietici amichevolmente come alleati della Polonia. Illusione fomentata dai comandi sovietici che diffusero volantini per convincere i Polacchi che l’Urss era arrivata per combattere contro i Tedeschi e alimentata dai soldati che attraversavano città e villaggi. A Tarnopol il prefetto della contea esortò la popolazione attraverso gli altoparlanti a dare un cordiale benvenuto all’esercito sovietico in arrivo. Il sindaco di Stanisławów affisse manifesti in tutta la città invitando alla calma e a un’accoglienza amichevole dei Sovietici. A Równe, il prefetto della contea, uscì in strada con un seguito di funzionari locali per salutare personalmente le avanguardie della colonna sovietica. Per le strade di Łuck unità dell’Armata Rossa marciarono fianco a fianco con distaccamenti dell’esercito polacco, dandosi reciprocamente la precedenza agli incroci [Gross 1991: 63; Gross 2002: 22-23].

Accoglienza amichevole. In tutta l’Ucraina occidentale e la Bielorussia occidentale Ucraini, Bielorussi ed Ebrei accolsero amichevolmente l’Armata Rossa, eressero archi di trionfo e issarono bandiere rosse o giallo-blu. I soldati sovietici venivano applauditi e salutati con fiori e con il pane e il sale del tradizionale gesto di ospitalità. La maggior parte degli Ucraini festeggiava il crollo dello Stato polacco, nella illusione che l’avanzata dell’Armata Rossa portasse all’unificazione dell’Ucraina. Gli Ucraini nazionalisti avrebbero preferito l’occupazione tedesca, come è chiaro dal modello di spostamenti della popolazione in tutta l’area: durante gli aggiustamenti dei confini, ogni volta che la Wehrmacht rinunciava a un territorio che apparteneva alla zona di occupazione sovietica, gli Ucraini si spostavano con i Tedeschi. Gli Ebrei, invece, seguivano i Sovietici. [Gross 2002: 31; Gross 1991: 65-66]

Gli Ebrei nel 1939 accolsero numerosi e con entusiasmo l’Armata Rossa, ma la loro reazione iniziale può essere spiegata. Nella popolazione locale c’erano proporzionalmente più simpatizzanti comunisti tra gli Ebrei che in qualsiasi altra nazionalità, anche se in assoluto non erano molti, anche dopo l’afflusso di rifugiati dalla Polonia occidentale e dei comunisti liberati dalle carceri polacche. Così, tra la folla di benvenuto vi erano sia comunisti che Ebrei timorati di Dio, tutti persuasi che dove arrivavano i Sovietici scomparivano i Tedeschi, ciò che basta a spiegare perché i primi venissero accolti con tanta esultanza. [Gross 2002: 32]

Contrariamente all’opinione polacca diffusa all’epoca e in seguito, solo pochi Ebrei, per lo più giovani, collaborarono attivamente con le nuove autorità comuniste. Ma il risentimento polacco arrivò a includere tutti gli Ebrei tra i collaborazionisti, con la conseguenza di estendere il tradizionale antisemitismo.

Nell’Ucraina occidentale e nella Bielorussia occidentale gli abitanti locali, inoltre, avevano avuto esperienza diretta dell’occupazione tedesca, durante la quale molti Ebrei furono uccisi; a Przemyśl, ad esempio, i Tedeschi assassinarono 600-700 eminenti cittadini ebrei – medici, avvocati, rabbini. A volte gli Ucraini locali aiutarono i Tedeschi a redigere le liste degli Ebrei e dei Polacchi da fucilare. Ci furono saccheggi, rapine e aggressioni a danno degli Ebrei e delle loro proprietà da parte dei loro vicini. Nel villaggio di Aleksandria, vicino a Rowne, una folla di Ucraini si armò per un pogrom antiebraico dopo che l’esercito e l’amministrazione polacca avevano lasciato la città. In effetti, la loro vulnerabilità durante il vuoto di potere che seguì la disintegrazione dello Stato polacco diede alle comunità ebraiche un motivo per desiderare ardentemente il rapido arrivo dell’esercito sovietico e il risentimento nei confronti dei Polacchi che li avevano umiliati si manifestava anche con battute sarcastiche: «Volevate una Polonia senza Ebrei, ora avete gli Ebrei senza la Polonia». [Gross 2002: 32-33]

Ma non dappertutto l’accoglienza festosa da parte di Ucraini, Bielorussi ed Ebrei fu così spontanea. In effetti, i Sovietici avevano brigato per assicurarsi il risultato: prima del 17 settembre, a precedere le truppe vennero inviati o attivati degli agenti con la funzione di organizzare ricevimenti amichevoli per l’Armata Rossa in arrivo. E, quando necessario, furono utilizzate anche le maniere forti. Poco prima che i soldati entrassero nel villaggio di Byteń, gli agenti sovietici terrorizzarono gli abitanti affinché esponessero bandiere rosse e salutassero l’esercito sovietico, minacciando quelli che non lo avrebbero fatto. Non sorprende, quindi, che una grande folla, sebbene terribilmente spaventata, festeggiasse l’ingresso delle truppe. A volte l’invito venne addirittura dai Tedeschi; in un villaggio, ad esempio, la Wehrmacht, prima di lasciar posto ai Sovietici, dissero a tutti che i Bolscevichi stavano per arrivare e che era meglio accoglierli con archi di trionfo, perché altrimenti tutti sarebbero stati uccisi. Gli abitanti si diedero subito da fare. [Gross 2002: 30]

Il fatto è che, sostiene J.T. Gross, l’entusiasmo all’arrivo dell’Armata Rossa era solo un atteggiamento di superficie con il quale una minuscola, anche se rumorosa, minoranza copriva l’atmosfera generale cupa e foriera di gravi eventi. I Sovietici erano apprezzati soprattutto come il male minore. La vecchia generazione, per esempio, che conosceva i Bolscevichi per averli combattuti vent’anni prima, era spaventata. Alcuni si suicidarono, altri fuggirono dalle loro case per nascondersi nelle foreste vicine o ovunque potessero, altri ancora, specialmente nelle città più grandi, rimasero a casa, timorosi di apparire per le strade. La paura dei Sovietici era diffusa. Uno spazzacamino della contea di Rohatyn riassume: «Quando l’esercito bolscevico stava entrando in territorio polacco, prevalse la depressione totale e il panico; i più deboli si tolsero la vita, altri si nascosero nei boschi mentre i più forti osservavano nervosamente». [Gross 2002: 34]

Ma gli Ucraini, nazionalisti e contadini, che avevano riposto negli invasori molte speranze non tardarono a veder deluse le proprie aspettative. A quanti issavano e sventolavano bandiere nazionali ucraine i Sovietici ingiunsero di metter via i loro “stracci” giallo-blu e di sostituirli con la bandiera rossa. Allo stesso modo rimasero delusi i giovani ebrei estasiati nel vedere che nell’Armata Rossa vi erano ufficiali ebrei: i Sovietici contrastarono duramente l’idea e la speranza di poter emigrare in Palestina perché la Palestina la stavano creando loro proprio in quelle terre. [Gross 1991: 65; Gross 2002: 25]

I primi ordini del Comando polacco furono “Combattete!”, ma poco dopo, valutando la tragica situazione generale, il comandante in capo polacco, maresciallo Rydz-Śmigły, arrivò alla conclusione che invece di condurre una guerra senza speranza contro i Sovietici invasori, la soluzione migliore sarebbe stata quella di salvare il maggior numero possibile di soldati per continuare l’azione in Francia. Con tali intenzioni egli emanò la seguente “direttiva generale”: «I Sovietici sono entrati. Ordino il ritiro generale in Romania e Ungheria per le vie più brevi. Nessun combattimento con i Bolscevichi, solo in caso di attacco da parte loro o tentativi di disarmare le unità. I compiti di Varsavia e delle città che hanno dovuto difendersi dai Tedeschi restano immutati». [cit. in Szawłowski: 32; Cienciala 2007: 19]

Tuttavia, l’ordine non venne sempre accolto o non raggiunse neppure i destinatari a causa delle difficoltà delle comunicazioni; sicché il comandante del KOP, il generale di brigata W. Orlik-Ruckemann, ordinò alle sue truppe di combattere. Schermaglie tra le unità del KOP e dell’Armata Rossa ebbero luogo lungo tutta la frontiera, soprattutto vicino a molte delle principali città come Vilnius e Grodno, e lungo la zona fortificata nella regione di Sarny. I combattimenti più pesanti, non a caso, ebbero luogo in Galizia, nel sud-est della Polonia, poiché unità regolari dell’esercito polacco gravitavano verso questo settore vicino alla frontiera rumena. [Zaloga: 80; Szawłowski: 28-43 e cartina]

Ma i Sovietici, già dal 19/20 settembre, avevano bloccato le vie di accesso alla Romania, mentre quelle verso l’Ungheria, situate più a ovest, rimasero aperte ancora qualche giorno; così 70-80.000 soldati polacchi riuscirono ad abbandonare la Polonia invasa.

Tra le unità polacche che attraversarono il confine a settembre c’erano una brigata corazzata, un centinaio di aerei da combattimento e un numero considerevole di personale di terra motorizzato. Queste forze sarebbero diventate la spina dorsale della divisione corazzata che partecipò alla guerra in Francia nel 1944 e dell’aviazione che giocò un ruolo importante nella battaglia d’Inghilterra. [Szawłowski: 32]

La situazione di Leopoli dopo dieci giorni di combattimenti contro i Tedeschi era diventata molto difficile, vi furono forti perdite tra i civili, mancava l’elettricità e l’acqua corrente. Ma le risorse militari della città restavano considerevoli: circa 30.000 soldati dotati di artiglieria, compresi cannoni anticarro e antiaerei. Inoltre, dopo l’inizio dell’aggressione sovietica, ma prima che i reparti dell’Armata rossa si avvicinassero alla città, due treni blindati e diversi grandi trasporti ferroviari con armi e munizioni avevano raggiunto la città, portando tra l’altro circa 2.000 mitragliatrici pesanti e 4.000 mitragliatrici leggere. C’erano anche migliaia di volontari pronti a combattere. La città, dunque, aveva le risorse umane e materiali per far fronte alle truppe sovietiche (i Tedeschi si erano ritirati intorno al 21 settembre).

Purtroppo, il comandante di Leopoli, generale Władysław Langner – malgrado l’opposizione di almeno un ufficiale superiore e di numerosi ufficiali subalterni, che tentarono addirittura una rivolta contro di lui – aderendo alla già citata “Direttiva generale” del maresciallo Rydz-Smigly del 17 settembre, si sottomise alle richieste sovietiche consegnando loro la città il 22 settembre.

L’accordo di resa firmato dai Polacchi e dai Sovietici prevedeva tra l’altro che agli ufficiali polacchi in partenza da Leopoli fosse data la possibilità di recarsi all’estero. Ma quasi tutti furono deportati in URSS, dove furono assassinati a Katyn e in altri campi. Altri crimini di guerra e numerosi crimini contro l’umanità furono perpetrati dai Sovietici anche a Leopoli e nelle regioni periferiche, che erano sotto la “particolare attenzione” di Nikita Krusciov, allora primo segretario del Partito comunista dell’Ucraina sovietica a Kiev. [Szawłowski: 41; Zaloga, Gerrard: 84]

I Sovietici presero subito di mira alcune categorie di Polacchi: ufficiali, poliziotti, funzionari locali, proprietari terrieri, preti, belorucbki (quelli che avevano le mani bianche). Racconta un testimone: «Il 27 settembre 1939 furono radunati circa 5.000 soldati, i miliziani insieme ai Bolscevichi si misero alla ricerca di ufficiali, sottufficiali e poliziotti. Davanti ai nostri occhi, furono fucilati sei ufficiali polacchi, otto sottufficiali e 150 poliziotti». [Gross 2002: 43]

Il 19 settembre circa 500 poliziotti e ufficiali catturati nei dintorni furono rinchiusi nel municipio di un villaggio. Improvvisamente, la sera, mentre i reclusi guardavano fuori dalle finestre, fu aperto il fuoco con mitragliatrici e granate causando la morte di diverse diecine di persone. [Gross 2002: 43]

Ma i Polacchi, militari e civili, oltre che contro l’Armata Rossa, si trovarono a dover combattere anche contro gruppi di Ucraini, Bielorussi ed Ebrei [Gross 2002: 19], che coglievano ora l’occasione del disfacimento dello Stato polacco sotto l’attacco da ovest e da est ad opera di Nazisti e Sovietici per combattere contro quel potere politico ed economico giudicato oppressivo e comunque incapace di accogliere le richieste delle minoranze nel paese. Gli attacchi contro i Polacchi (villaggi, reparti isolati dell’esercito, autorità locali) dei gruppi armati di Ucraini, Bielorussi, Ebrei, cui si univano anche delinquenti comuni appena liberati, erano istigati e sostenuti dai Sovietici che chiamavano le minoranze alla lotta nazionale per liberarsi dal giogo dei signori polacchi e incitavano i contadini ad armarsi di forconi, asce, seghe e falci per sopraffare i proprietari terrieri che li angariavano.

Questa la testimonianza di una polacca: «Presero mio padre sessantottenne, un cugino, tutti i vicini che non avevano fatto in tempo a scappare e alcuni sorpresi sulla strada. Tutti furono portati alla scuola. Arrivò un commissario sovietico che sparò subito a un avvocato che aveva ammesso di aver partecipato ad alcuni processi contro comunisti; lasciò gli altri ai teppisti perché ne facessero ciò che volevano. I prigionieri furono così portati nei campi, fu ordinato loro di spogliarsi e furono fucilati uno dopo l’altro. Li gettarono nelle fosse, ancora vivi. Mio padre era vivo quando lo gettarono in una fossa, e quando si alzò e gridò loro “anche se ci uccidete, la Polonia sarà ancora qui”, gli spaccarono il cranio con le vanghe. Spezzarono le gambe a un conoscente, un insegnante, e poi lo seppellirono vivo. Tali omicidi avvenivano in tutta la zona». [Gross 2002: 37]

Nel settembre 1939 singoli soldati polacchi che vagavano alla ricerca dei loro distaccamenti o semplicemente tornavano a casa venivano spesso uccisi da contadini ostili o, più frequentemente, spogliati delle loro uniformi e picchiati e poi rilasciati, nudi e feriti. Reparti più numerosi dell’esercito polacco che cercavano di raggiungere il confine rumeno o ungherese misero a ferro e fuoco i villaggi dove si erano verificati incidenti del genere. Nelle ultime due settimane di settembre la distanza tra i Polacchi e le altre nazionalità si allargò fino a diventare un abisso. [Grudzinska, Gross: 8]

Così, osservano Irena Grudzinska-Gross e Jan Tomasz Gross, «Molto sangue fu versato senza che l’Armata Rossa dovesse sparare un solo colpo». [Grudzinska, Gross: 6]

D’altra parte, bisogna considerare che gli scontri e le violenze tra Polacchi, Ucraini, Bielorussi, Ebrei rimasero episodi accidentali, in quanto l’esercito polacco non stava cercando di pacificare la campagna ucraina o bielorussa, né i contadini locali si erano sollevati contro l’autorità polacca. Tuttavia, le violenze ad opera di reparti polacchi si aggiunsero agli insulti che la popolazione locale aveva subito sotto l’amministrazione polacca tra le due guerre, ed è alla luce di queste esperienze che si devono considerare le brutalità commesse dai contadini locali contro i polacchi. In ogni caso, e bisogna sottolinearlo, dopo l’invasione sovietica non ci fu alcuna rivolta ucraina contro ciò che rimaneva dell’autorità polacca che fosse paragonabile alla rivolta in quest’area ventuno mesi dopo, contro i Sovietici dopo lo scoppio della guerra russo-tedesca. [Gross 2002: 21]

L’ingresso dell’Armata Rossa nei villaggi polacchi provocò anche curiosità e sconcerto. È vero, i suoi carri armati testimoniavano della potenza dell’Urss, ma c’erano anche molti soldati a cavallo e carri di rifornimento trainati da cavalli e la maggior parte degli animali sembrava essere allo stremo. I soldati poi – «malnutriti, malvestiti e puzzolenti» – offrivano uno spettacolo curioso: alcuni a cavallo avevano la sella e altri no; alcuni avevano le scarpe, ma altri avevano solo pezze avvolte attorno ai piedi; alcuni indossavano cappotti lunghi, altri corti; alcuni avevano cinture, mentre altri avevano solo delle corde attaccate ai fucili. [Gross 2002: 45]

E i loro volti esprimevano un misto di sospetto, incredulità e gioia. Perché non potevano letteralmente credere ai loro occhi alla vista di quelle immense, incredibili ricchezze; i cavalli e il bestiame dei contadini, ad esempio, erano tutti così ben nutriti e ben tenuti! I contadini polacchi sembravano disporre di cibo e frutta in quantità e varietà stupefacenti e di prelibatezze raramente viste nei loro kolchozy o nelle loro città: burro, panna acida, carne, salsicce, uova, formaggio.

Da tenere a mente che le regioni invase dai Sovietici erano le più povere di un paese povero, la Polonia, se confrontato con gli standard europei.

Ma forse la rivelazione più grande arrivò quando i soldati sovietici raggiunsero le città rigurgitanti di materiali e merci: scarpe, vestiti, tessuti e prodotti industriali di ogni genere: gli orologi, per esempio, erano una grande meraviglia. E tutto questo lo si poteva vedere nei negozi; poteva essere toccato, comprato, o solo preso.

Nelle parole di un insegnante di una piccola città: con l’invasione sovietica della Polonia «un mondo affamato e un mondo sazio sono entrati in contatto». [Gross 2002: 47; Gross 1991: 67]

Fu un’esperienza molto confusa per i soldati dell’Armata Rossa che sapevano di essere venuti per liberare i loro fratelli di sangue oppressi dal giogo dei padroni. In un ordine indirizzato ai reparti del Fronte bielorusso il 16 settembre era detto: «Non veniamo come conquistatori, ma come liberatori dei nostri fratelli Bielorussi e Ucraini e dei lavoratori della Polonia» [ordine riportato in Cienciala 2007: 43]. I soldati sapevano anche che i padroni in Polonia erano una piccola minoranza e che a tutti gli altri venivano imposte angherie e privazioni. Ma dov’erano le masse oppresse se tutti vivevano così bene?

Prima di ricevere l’ordine di entrare in Polonia, il personale dell’Armata Rossa era stato istruito a non fidarsi dei trucchi della propaganda in Polonia. C’erano anche frasi standard da memorizzare come “noi abbiamo tutto” e “ne abbiamo in abbondanza”. Ma poiché i soldati vedevano molte merci per la prima volta nella loro vita, commettevano errori rendendosi così ridicoli. Ben presto i giovani burloni più audaci di Leopoli e di altre città coinvolgevano i soldati in conversazioni sulle fabbriche sovietiche che producevano arance, Greta Garbo e Amsterdam. [Gross 2002: 45-; Grudzinska, Gross: 10-11]

L’abbondanza – rispetto agli standard sovietici – delle merci disponibili aveva provocato negli invasori comportamenti che destavano l’ilarità dei Polacchi. Dopo l’arrivo delle famiglie di coloro che erano stati incaricati di amministrare le province appena conquistate, divenne proverbiale il modo in cui le donne sovietiche si recavano all’opera e agli spettacoli di gala indossando camicie da notte e sottovesti come se fossero gli abiti più eleganti. [Gross 2002: 47]

Guadagni e perdite sovietiche. Con l’invasione della Polonia l’URSS si impadronì di 200.000 chilometri quadrati di territorio, acquisì 13,7 milioni di nuovi sudditi e fece 250.000 prigionieri di guerra. [Gross 2002: 17]

Molotov, in un discorso al Soviet Supremo del 31 ottobre 1939, riferendosi alla “liberazione” della Polonia orientale, affermò che le perdite sovietiche furono 737 morti e 1.862 feriti. Secondo Szawlowski «un esame abbastanza dettagliato dei principali combattimenti indica che le perdite sovietiche furono, in realtà, considerevolmente più elevate: la nostra stima del numero dei morti è di circa 2500-3000 e, insieme ai feriti, le perdite potrebbero essere ammontate a circa 8.000-10.000. Circa un centinaio di carri armati e autoblindo sovietici, o più, furono distrutti». [Szawłowski: 42; Gross 2002: 17]

5. Vittime e forme della repressione sovietica nella Polonia orientale 1939-1941: Deportazione, reinsediamento, reclusione, coscrizione

[ 4 ]

L’invasione, il 17 settembre, e poi l’occupazione della Polonia orientale da parte dei Sovietici si rivelarono altrettanto devastanti dell’occupazione nazista della Polonia occidentale (almeno fino al 1941); tant’è che tra il 1939 e il 1941 molti Polacchi, anche Ebrei, cercarono scampo nei territori occupati dai Tedeschi [Kochanski: 124]. Chruscev riporta nelle sue memorie: «Ci sono lunghe file in piedi fuori dal luogo in cui le persone si registrano per ottenere il permesso di tornare in territorio polacco. Quando ho dato un’occhiata più da vicino, sono rimasto scioccato nel vedere che la maggior parte delle persone in fila erano Ebrei. Stavano corrompendo gli agenti della Gestapo perché li lasciassero andare via il più presto possibile per tornare alle loro case originarie». [cit. in Kochanski: 124]

Insieme con l’Armata Rossa arrivò in forze l’NKVD (la polizia segreta sovietica), che in Urss aveva acquisito un’esperienza di violenza politica a quel tempo sconosciuta ai Nazisti. Durante il Grande Terrore del 1937-38 oltre seicentomila cittadini sovietici erano stati arrestati, fucilati e sepolti in fosse comuni, molti di più dei Polacchi uccisi dalle Einsatzgruppen dopo l’invasione del 1939. [Snyder 2015: 157]

All’inizio dell’invasione la distruzione dello Stato polacco ad opera dei Nazisti e dei Sovietici aveva generato una situazione caotica. I soldati dell’Armata Rossa picchiavano gli uomini fino a ucciderli per strappare loro i denti d’oro e stupravano le donne confidando nel fatto che tali violenze sarebbero state viste come “divertimenti di ragazzi”; i comunisti locali derubavano e uccidevano i Polacchi, in particolare funzionari e proprietari terrieri, senza dimenticare i vicini, rapinati durante pretestuose perquisizioni alla ricerca di armi. [Snyder 2015: 159, 168].

In seguito, l’NKVD impose un ordine basato sulla violenza istituzionale e dall’alto. Nei territori annessi si abbatté un’ondata di repressioni di intensità eccezionale perfino per gli standard sovietici, perché tutte le operazioni dello «Stato terroristico staliniano» che nell’URSS si erano svolte nel corso di almeno due decenni, in Polonia furono attuate in meno di due anni. [Zaslavsky: 42]

5.1. Prime esecuzioni di massa

Già nelle prime settimane di occupazione interi distaccamenti polacchi e i loro ufficiali furono fatti prigionieri e uccisi indiscriminatamente. Diverse centinaia di poliziotti, che si erano arresi, ricevettero l’ordine di uscire da Leopoli per essere internati in un campo di prigionia, ma appena fuori città furono falciati con armi automatiche e mitraglie dei carri armati. Vicino a Luniniec furono fatti prigionieri un distaccamento del KOP, alcuni poliziotti e un certo numero di civili che avevano partecipato a scaramucce con i Sovietici. Furono rinchiusi in diversi fienili e poi tutti i poliziotti, gli ufficiali e i sottufficiali del KOP furono chiamati fuori e fucilati. [Grudzinska, Gross: 246 nota 13]

«Questi omicidi di massa, in violazione del diritto internazionale e delle regole di guerra, sono particolarmente inquietanti poiché sono stati commessi all’inizio della guerra, nel settembre 1939, molto prima che la bestialità nazista e la crudeltà giapponese trasformassero la seconda guerra mondiale in un’esperienza senza precedenti di illegalità e orrore». [Grudzinska, Gross: 246 nota 13]

5.2. Prigionieri di guerra

Nell’autunno del 1939 i prigionieri di guerra dei Sovietici erano 125.000; di questi, 42.492 – che provenivano dai territori occupati dai Tedeschi – furono consegnati al Terzo Reich; furono invece liberati altri 42.400 prigionieri residenti nella Polonia orientale. Così, nel dicembre 1939, nei campi sovietici rimasero quasi 39.000 prigionieri. Di questi ultimi, 10.362 sottufficiali e membri della truppa furono inviati nelle miniere di ferro; 13.297 furono assegnati al cantiere per la strada Leopoli-Kiev; mentre 15.087 ufficiali e poliziotti professionisti e di riserva furono rinchiusi nei campi di Kozelsk, Starobelsk, Ostashkov.

Secondo i dati della fine di febbraio 1940, tra i 4.486 prigionieri del campo di Kozelsk c’erano 4.347 Polacchi, 89 Ebrei, 23 Bielorussi, 11 Tedeschi, 8 Lituani, 6 Ucraini, 1 Ceco, 1 Georgiano. Tra i 3.908 prigionieri del campo di Starobelsk, 3.838 erano Polacchi, 71 Ebrei, 4 Ucraini, 1 Tedesco, 1 Ungherese, 1 Lituano, 1 Lettone, 1 Bulgaro. Tra i 6.072 prigionieri nel campo di Ostashkov, 6.013 erano Polacchi, 28 Bielorussi, 23 Ucraini, 4 Tedeschi, 2 Cechi, 2 Russi.

I prigionieri dei campi di Kozelsk, Starobelsk, Ostashkov furono quasi tutti assassinati ad aprile e maggio del 1940 in seguito ad una decisione del Politburo del partito comunista del 5 marzo 1940 e segretamente sepolti a Katyn, Mednoe, Kharkov. [ 5 ] [Hryciuk: 179-180]

5.3. Arresti

Gruppi speciali dell’NKVD al seguito dell’Armata Rossa nel settembre 1939 iniziarono ad arrestare Polacchi, Ucraini, Bielorussi ed Ebrei, ma anche emigrati dall’Unione Sovietica. Secondo i dati sovietici dal settembre 1939 al maggio 1941 nelle regioni occidentali della Bielorussia e dell’Ucraina furono arrestate 109.400 persone: 42.948 Polacchi (39,23%), 24.186 Ucraini (22,09%), 8.091 Bielorussi (7,39%) e 23.590 Ebrei (21,55%).

Delle circa 110.000 persone arrestate, 9.465 furono rilasciate nel corso delle indagini; 612 detenuti morirono a causa di torture, dure condizioni di vita e malattie; 43 prigionieri fuggirono. Nel maggio 1941 erano state emesse 1.208 condanne a morte. A questo numero, è necessario aggiungere 7.305 persone assassinate sulla base di una decisione presa da una speciale "troika" della direzione dell’NKVD nella primavera del 1940.

Dei 20.094 prigionieri in carcere nell’Ucraina occidentale al 10 giugno 1941, circa 4.500 furono trasferiti all’interno dell’Unione Sovietica, più di 8.700 furono assassinati, il resto – non meno di 7.000 persone che erano di solito sospettate di reati comuni o atti criminali – rimasero sul posto e riacquistarono la libertà.

Dal settembre 1939 al giugno 1941 furono trasferite dalla Bielorussia occidentale all’interno dell’Unione Sovietica 22.000 persone. Dei 16.375 prigionieri in carcere al 10 giugno 1941, circa 2.800 furono evacuati, oltre 700 furono assassinati (soprattutto quelli nel carcere di Gtebokie), circa 12.800 persone furono lasciate indietro e fuggirono sfruttando il caos dei primi giorni dell’invasione tedesca nel giugno del 1941.

Nella composizione nazionale degli arrestati nella Polonia occupata dai sovietici nel 1939-1941 spicca il gran numero dei Polacchi e degli Ebrei. [Hryciuk: 182-184]

Le persone venivano arrestate su ordine delle autorità di polizia sovietiche, che miravano a cancellare o indebolire interi gruppi sociali ideologicamente individuati come naturalmente controrivoluzionari (ufficiali dell’esercito, proprietari terrieri, professionisti, poliziotti …), oppure nel corso di retate occasionali nelle strade e nelle piazze delle città e dei villaggi, oppure ancora in seguito a denunce di singoli cittadini che regolavano a questo modo antiche o recenti discordie, personali e familiari. Quest’ultimo fenomeno era anche l’esito del crollo della solidarietà sociale indotto dalla pressione poliziesca mirata che distruggeva le strutture portanti della società civile. Un aneddoto riferito alla situazione della città di Vilnius è a questo proposito significativo: «Mia madre, che era stata in una sede dell’NKVD per sapere di mio padre che era già stato arrestato, mi raccontò che a un certo punto un impiegato uscì dal suo ufficio e annunciò alla folla in attesa: andate a casa, compagni, oggi non accetteremo più denunce». [cit. in Gross 2002: 145]

Chiunque poteva essere arrestato in qualsiasi momento, tenuto conto delle categorie che i Sovietici ritenevano pericolose per il regime comunista, come riportato in un elenco preparato in Lituania nel novembre 1940. Tra le tante: 1) ex membri di organizzazioni antisovietiche: trotskisti, socialisti rivoluzionari, menscevichi, socialdemocratici, anarchici; 2) ex gendarmi, poliziotti, agenti di polizia politica e criminale e delle carceri; 3) ex ufficiali e membri dei tribunali militari degli eserciti di Lituania e Polonia; 5) disertori, emigrati politici, rimpatriati e contrabbandieri; 6) cittadini di paesi stranieri, rappresentanti di aziende straniere, dipendenti di uffici di paesi stranieri, ex cittadini di paesi stranieri, ex dipendenti di legazioni, ditte, concessioni e società per azioni di paesi stranieri; 7) persone che hanno contatti personali e intrattengono corrispondenza all’estero con legazioni e consolati stranieri, esperantisti e filatelisti; 8) ex operatori della Croce Rossa e rifugiati polacchi, 9) sacerdoti, pastori, membri di comunità religiose; 10) ex nobili, proprietari terrieri, mercanti, banchieri, commercianti, proprietari di negozi, proprietari di alberghi e ristoranti [elenco ripreso da Gross 2002: nota n. 6 pp. 334-335].

Ma «per semplificare ulteriormente il trattamento degli arrestati, le accuse di crimini passati e presenti venivano opportunamente tipizzate in base alla nazionalità. I Polacchi venivano condannati come controrivoluzionari al servizio della borghesia, gli Ucraini venivano mandati nei campi di lavoro come nazionalisti e gli Ebrei venivano imprigionati come speculatori». [Gross 2002: 149]

5.4. Prigioni

La sovietizzazione dell’Ucraina e della Bielorussia occidentali comportò una massiccia e caotica estensione delle carceri e dei carcerati, per ammassare i quali furono frettolosamente adattati porcili, uffici e chiostri. Il sovraffollamento e le condizioni materiali di detenzione erano orribili e bastavano poche settimane a trasformare i carcerati – studenti, ufficiali, funzionari pubblici, avvocati e commercianti – in relitti umani.

Spesso i prigionieri non avevano di che sfamarsi perché i carcerieri non provvedevano e furono gli abitanti del luogo, i conoscenti e gli amici ad alleviare come potevano la fame dei carcerati. Ecco due testimonianze: «La vista di una folla composta da mogli, figli e madri che aspettano per ore davanti alla prigione di Kołomyja il permesso di consegnare un magro pacco di cibo o una pentola di zuppa già fredda per la persona amata è stato così commovente e tragico che probabilmente lo conserverò per sempre nella mia memoria e nel mio cuore […] Le famiglie dei prigionieri si riunivano ogni giorno davanti al carcere in attesa di notizie sui loro cari, o imploravano di consegnare un pacco. Sulle porte c’era scritto che l’orario di ricevimento iniziava alle 7 del mattino. Molto spesso, tuttavia, la porta non si apriva prima delle 12, e le donne e i bambini infreddoliti venivano tenuti quattro o cinque ore all’aperto, dove c’erano 40°C sotto zero (questo era l’inverno in Polonia nel 1939-1940). Poi, un comandante apriva la porta, e se era di buon umore accettava i pacchi; altrimenti, apostrofandoci in modo volgare, chiudeva la porta dicendoci di tornare l’indomani». [cit. in Gross 2002: 156, 337-338]

Ad aggravare la sofferenza contribuiva il fatto che la biancheria sporca restituita a una moglie o a una madre era spesso macchiata di sangue, il che non lasciava dubbi sul fatto che il prigioniero fosse stato torturato.

Il primo contatto visivo con gli altri prigionieri produceva una reazione di shock e incredulità: «Vidi una scena orribile: una folla di persone sporche, non rasate, affamate ed emaciate vestite di stracci. Mi chiedevo se fossi entrato in una tana di banditi o in una tana di animali selvatici». [cit. in Gross 2002: 156]

Durante i 21 mesi di dominio, settembre 1939-giugno 1941, i Sovietici imprigionarono un numero sbalorditivo di persone per una popolazione di 13 milioni di abitanti. Molti morirono in prigione a causa delle torture subite durante gli interrogatori o per negligenza. All’avvicinarsi dei Tedeschi dopo l’attacco all’Urss nell’estate 1941, prima di ritirarsi l’NKVD uccise i detenuti di almeno 25 prigioni. [Gross 1991: 72-73]

5.5. Torture

Gli uomini dell’NKVD erano addestrati a picchiare i prigionieri per indurli a collaborare e non avevano bisogno di strumenti speciali di tortura. Un maggiore di Kołomyja era solito colpire i suoi prigionieri con un righello di metallo dopo ogni domanda senza risposta. Spesso li picchiava fino a far loro perdere i sensi. I prigionieri potevano essere afferrati per i capelli e avere la testa sbattuta contro un muro. Nella prigione di Czortkow, gli arrestati dopo la rivolta del gennaio 1940, molti dei quali studenti delle scuole superiori, furono picchiati con paletti di legno, pistole, bottiglie e sbarre di metallo, e presi a calci fino a rompere loro le mascelle e le costole.

Un manganello agitato casualmente davanti agli occhi di un prigioniero veniva chiamato dagli astiosi inquisitori “la costituzione polacca” o, in alternativa, “la costituzione di Stalin”. Questo per far capire che il bastone, piuttosto che la legge, era il fondamento del nuovo ordine.

Durante gli interrogatori i modi e gli strumenti di tortura potevano essere molto semplici: aghi infilati sotto le unghie o mani schiacciate nelle porte. A molti prigionieri veniva ordinato di sedersi sul bordo di una sedia con le gambe e le mani tese in avanti. Poi, all’improvviso, la sedia veniva tirata via facendo cadere il prigioniero sul coccige. Nella prigione di Augustow, le persone venivano torturate con vodka, benzina o cherosene versate nel naso. Uno dell’NKVD spingeva i suoi prigionieri accanto a una stufa accesa in un punto dove l’acqua gocciolava lentamente sulle loro teste. «Le gocce che cadevano facevano perdere i sensi e si sentivano come colpi di martello», scrisse una delle sue vittime. I prigionieri venivano esposti a temperature estreme. Ad alcuni veniva ordinato di stare sull’attenti accanto a una stufa rovente; altri erano gettati nudi o in mutande in fredde celle di punizione, poi inondate di modo che i prigionieri non potessero neppure sdraiarsi sul pavimento.

La cella di punizione di Oszmiana (voivodato di Vilnius): «Era un buco nel terreno senz’aria dove non si poteva né stare in piedi né seduti, ma bisognava sdraiarsi come in una bara. Pensavo di soffocare. Ogni giorno mi gettavano una fetta di pane e mezzo litro d’acqua. Non portavano i prigionieri in bagno. La puzza in quel buco era insopportabile».

In una prigione di Pińsk (voivodato di Polesia): «La cella di punizione si trovava in uno spazio minuscolo in cui si poteva entrare solo mettendosi in ginocchio. Un tubo di scarico passava attraverso questo spazio e la luce elettrica era così forte che era impossibile aprire gli occhi. L’uomo più forte non poteva resistere più di quindici minuti. I prigionieri privi di sensi venivano riportati nelle loro celle, spruzzati d’acqua, e dopo poco tempo il trattamento veniva ripetuto».

Nella prigione di Berezwecz durante gli interrogatori le persone venivano ustionate. A Wilejka, un prigioniero aveva l’ordine di stare sull’attenti con la testa inclinata all’indietro il più possibile; poi gli si premevano sigarette accese contro il mento. A Bukaczowce, un villaggio nella contea di Rohatyn (voivodato di Stanisławow), un prigioniero ha avuto il pene avvolto nella carta e dato alle fiamme durante l’interrogatorio.

Non c’erano molte donne tra gli inquisitori dell’NKVD, ma si fecero ricordare. Picchiavano i loro prigionieri e li apostrofavano proprio come i loro omologhi maschi. A differenza degli uomini dell’NKVD, tuttavia, puntavano ai genitali, sia i loro che quelli dei loro prigionieri. Alcuni ex prigionieri evocano lo stesso gesto e la stessa frase nei loro ricordi dell’interrogatorio. «Ti condanneremo a quindici anni e non vedrai più una fica», disse una graziosa donna dell’NKVD al suo prigioniero. «Alla fine si è alzata la gonna», ricorda un’altra vittima, «e mostrando i suoi genitali, ha detto che li stavo guardando per l’ultima volta nella mia vita».

Marian Phidy, condannato a un anno di carcere da un tribunale di Lwow presieduto da un giudice donna, riferì: «[dopo la lettura della sentenza] Małka, che mi ha giudicato, si è alzata e ha detto ad alta voce in modo che il pubblico in ascolto potesse sentire: “Va bene, vivrai, ma non potrai più scopare e non vedrai più una fica, e sollevando la gonna accompagnò le parole con un gesto delle mani”». Le frasi e i gesti beffardi presso le inquisitrici dell’NKVD erano diventati usuali.

«Né abili manipolatori di idee addestrati dal materialismo dialettico, né burocrati senza volto preoccupati dell’efficienza organizzativa, gli agenti sul campo dell’NKVD appaiono invece come una schiera di individui ignoranti, brutali e volgari». [Gross 2002: 172-174]

5.6. Deportazioni

Copertina del libro che riporta le testimonianze dei bambini deportati in Unione Sovietica.

Copertina del libro che riporta le testimonianze dei bambini deportati in Unione Sovietica.

Tra settembre 1939 e giugno 1941 centinaia di migliaia di persone furono deportate dai Sovietici in quattro ondate successive: 1) Febbraio 1940: deportazione delle famiglie di coloni e forestali; 2) Aprile 1940: deportazione delle famiglie delle persone già deportate o imprigionate o uccise; 3) Giugno 1940: deportazione dei rifugiati dalla Polonia occidentale e centrale; 4) Maggio e giugno 1941: deportazione dell’”elemento antisovietico e nazionalista”.

5.6.1. Febbraio 1940: deportazione delle famiglie di coloni e forestali. Assieme all’arresto, uno strumento cruciale repressivo si rivelò la deportazione con il reinsediamento forzato in territori spesso lontanissimi dalla residenza originaria. Tra i deportati sono da elencare in primo luogo i “coloni”, cioè quelle persone che avevano acquistato appezzamenti in seguito alla ridistribuzione delle terre nella parte orientale della Seconda Repubblica Polacca, e i “forestali”, cioè gli addetti alla protezione delle foreste private e statali.

La decisione riguardo ai coloni fu presa al più alto livello della leadership sovietica, Politburo e Consiglio dei Commissari del Popolo, all’inizio di dicembre 1939; le liste dei soggetti a deportazione furono redatte entro il 25 gennaio 1940; contemporaneamente furono completati i programmi di trasporto. L’operazione di massa fu effettuata durante la notte dal 9 al 10 febbraio 1940. [Hryciuk: 185]

Non è però possibile determinare con esattezza il numero delle persone deportate e reinsediate nel febbraio 1940, anche perché i conteggi delle diverse istituzioni addette non sono sempre coerenti e possono aver omesso in talune situazioni i morti durante i viaggi di trasferimento.

Nel febbraio 1940, furono deportate dall’Ucraina occidentale circa 17.206 famiglie (89.062 persone), e dalla Bielorussia occidentale circa 9.584 famiglie (50.732 persone). In 100 trasporti ferroviari furono così sradicate dalla Polonia occupata dai Sovietici complessivamente 26.790 famiglie, per un totale di 139.794 persone. [Hryciuk: 186]

Le scarse condizioni igieniche, le dure condizioni di vita, l’approvvigionamento inadeguato e il duro lavoro portarono alla morte molti tra i deportati.

5.6.2. Aprile 1940: deportazione delle famiglie delle persone già deportate o incarcerate o uccise.

Il principio della responsabilità collettiva praticato in Unione Sovietica determinò il destino delle famiglie dei prigionieri di guerra, in particolare delle famiglie dei prigionieri nei campi di Kozelsk, Starobelk e Ostashkov. La decisione di deportarli fu presa dal Politburo e dal Consiglio dei Commissari del Popolo dell’URSS il 2 marzo 1940. Cinque giorni dopo, Lavrentij Beria (ministro per gli affari interni) ordinò agli uffici dell’NKVD nelle regioni occidentali dell’Ucraina e della Bielorussia di organizzare “troike operative”.

Le mogli e i figli dovevano essere deportati, così come i genitori, i fratelli e le sorelle, se vivevano «insieme alla famiglia della persona arrestata o del prigioniero di guerra». Inoltre, «[...] Membri di famiglie di ufficiali, poliziotti, guardie carcerarie e altre categorie i cui capifamiglia a un certo punto sono fuggiti oltre confine, si nascondono o sono anche ricercati [...] sono stati inclusi nel numero complessivo delle persone soggette a reinsediamento».

Dovevano essere deportate anche le prostitute in quanto elementi socialmente estranei e pericolosi.

Una risoluzione del 10 aprile 1940, fissò la data dell’operazione di deportazione per la notte tra il 12 e il 13 aprile 1940.

Per mezzo di 51 treni di trasporto, furono deportati dall’Ucraina e dalla Bielorussa occidentali nel Kazakistan 60.667 famigliari dei membri delle organizzazioni nazionaliste, di ufficiali dell’ex esercito polacco, di poliziotti, di impiegati nei servizi penitenziari, di gendarmi, di proprietari terrieri, di proprietari di fabbriche e di funzionari dell’ex apparato statale polacco.

Lo status di coloro che furono deportati nell’aprile del 1940 differiva dalla posizione dei coloni e dei rifugiati. Formalmente, le famiglie deportate furono semplicemente “esiliate amministrativamente” per un periodo di dieci anni e quindi mantennero una parte dei loro diritti di cittadini sovietici. Vivevano tra la popolazione locale e non erano isolate negli insediamenti assegnati. L’unico divieto riguardava il cambio di residenza di propria iniziativa. Al fine di impedire la fuga «delle persone reinsediate e di rafforzare i loro legami con il luogo di insediamento con altri mezzi, le autorità di polizia del [loro] luogo di dimora» rilasciavano loro dei passaporti con l’indicazione di validità solo nei confini della repubblica in cui erano state deportate.

Dati incompleti dell’aprile 1940 riguardanti sembrano mostrare che, tra i deportati, i Polacchi costituivano circa il 68,3% (41.000), gli Ucraini circa il 13,5% (8.100), i Bielorussi circa l’11,5% (6.900) e gli Ebrei il 4,17% (2.500). [Hryciuk: 187-189]

5.6.3. Giugno 1940: la deportazione dei rifugiati dalla Polonia occidentale e centrale

La terza ondata di deportazioni di massa nel 1940 colpì i cosiddetti bezhentsy, rifugiati dalla Polonia occidentale e centrale, in particolare quei rifugiati nella Polonia occupata dai Sovietici il cui rimpatrio era stato rifiutato dai Tedeschi tra l’aprile 1940 e il giugno 1940. Questo sulla base dell’accordo del dicembre 1939 e del gennaio 1940 che Tedeschi e Sovietici avevano raggiunto sullo scambio reciproco di rifugiati polacchi nella rispettiva zona di occupazione.

La condizione fisica di un bambino deportato.

«Foto di un bambino ricoverato in un piccolo ospedale. Illustra la disperata condizione fisica di molti bambini deportati».
(Fonte: Grundzinska, Gross)

La deportazione fu effettuata nella notte tra il 28 e il 29 giugno 1940. Il numero esatto delle vittime è controverso e i diversi uffici dei Sovietici hanno fornito dati diversi in tempi diversi. Secondo i dati dell’NKVD, furono deportate 7.224 famiglie (22.879 persone) dalla Bielorussia occidentale e 24.700 famiglie (57.774 persone) dall’Ucraina occidentale; in tutto, 31.924 famiglie per un totale di 80.653 persone.

Secondo i dati del secondo trimestre del 1941, su 76.113 bezhentsy, c’erano 8.357 polacchi (10,95%), 1.728 ucraini (2,26%), 186 bielorussi (0,24%), 119 tedeschi (0,16%), 1.396 persone la cui nazionalità non era indicata nei rapporti dell’NKVD e ben 64.533 Ebrei (84,56%).

La maggior parte dei rifugiati proveniva dalle città. L’intellighenzia costituiva una parte considerevole dei rifugiati; le autorità sovietiche contavano fino a 8.261 “medici, agronomi e insegnanti”, tra i quali 551 “specialisti altamente qualificati” e scienziati o accademici di varie istituzioni.

5.6.4. Maggio e giugno 1941: la deportazione dell’”elemento antisovietico e nazionalista”

Dopo la deportazione dei bezhentsy nel giugno 1940 ci fu un periodo di calma di undici mesi.
Con l’avvicinarsi della guerra, il Consiglio dei Commissari del Popolo dell’URSS il 14 maggio 1941 decise di intraprendere un’operazione di “pulizia” delle regioni occidentali dell’Unione Sovietica tramite la deportazione dei “controrivoluzionari” e delle loro famiglie. Il 21 maggio 1941, Beria firmò la decisione che avviava l’operazione di deportazione dall’Ucraina occidentale.

I primi trasporti partirono all’alba del 22 maggio per terminare entro le 22:00 dello stesso giorno con la deportazione di 3.073 famiglie, in totale 11.328 persone.

Poiché la deportazione era anzitutto parte di un’operazione contro i nazionalisti ucraini iniziata il 2 aprile 1941, gli Ucraini costituirono la stragrande maggioranza di coloro che furono trasferiti, ma tra i deportati c’erano anche dei Polacchi.

Nella notte tra il 19 e il 20 giugno 1941, un’altra ondata di deportazioni colpì i Polacchi della Bielorussia occidentale. I preparativi erano già iniziati a metà maggio. Complessivamente, la repressione colpì più di 24.000 persone: 2.029 furono arrestate e 22.353 deportate. Tra queste ultime c’erano: 6.655 membri delle famiglie delle persone già arrestate; 1.239 familiari di condannati a morte; 3.752 familiari di persone entrate in clandestinità; 7.105 familiari di persone fuggite dal Paese; 2.093 membri delle famiglie di "leader e membri attivi di organizzazioni insurrezionali controrivoluzionarie in corso di indagini"; 47 membri delle famiglie dei proprietari terrieri imprigionati; 231 familiari di gendarmi e poliziotti arrestati; 708 mercanti, commercianti e membri delle loro famiglie; e 496 membri delle famiglie di ufficiali militari polacchi repressi ed ex alti funzionari statali polacchi.

Delle 22.353 persone deportate dalla Bielorussia occidentale nel giugno 1941, almeno 13.200 erano Polacchi, 1.600 erano Ebrei, circa 700 Ucraini e 5.500 Bielorussi.

Nella ricca nomenclatura giuridica sovietica, i deportati nel 1941 erano considerati “coloni in esilio” per vent’anni nelle regioni remote dell’Unione Sovietica. L’esilio interno in un insediamento era una forma di punizione che poteva essere inflitta dai tribunali o dai collegi speciali dell’NKVD. I coloni in esilio deportati nelle regioni designate dalle autorità dell’NKVD avevano diritto a un luogo di residenza di loro scelta; erano obbligati “a impegnarsi in un lavoro socialmente utile”; erano costretti a presentarsi a intervalli regolari all’ufficio locale dell’NKVD ed erano obbligati a informare l’NKVD di qualsiasi cambiamento di luogo di residenza all’interno dei confini della regione assegnata. Coloro che erano esiliati in un insediamento potevano lavorare in imprese statali e cooperative; potevano diventare membri dei kolchozy. Inoltre, godevano di tutti i diritti sociali dei cittadini sovietici liberi. Lasciare senza autorizzazione il proprio luogo di esilio interno era considerato una fuga e passibile di punizione.

5.6.5. Numero complessivo e composizione nazionale dei deportati nel 1940-1941. Dai dati pubblicati dall’NKVD, emerge che, in ventuno mesi, le autorità sovietiche deportarono almeno 315.000 cittadini polacchi in Kazakistan, Siberia e nell’estremo nord. Tra questi, i più numerosi erano i Polacchi etnici, circa 181.200 (57,5%); gli Ebrei costituivano il secondo gruppo con circa 69.000 (21,9%), seguiti dagli Ucraini, 32.900 (10,44%) e dai Bielorussi 24.000 (7,62%). Tra i deportati anche diverse migliaia di tedeschi, lituani, russi e cechi. [Hryciuk: 195]

La brutalità delle deportazioni era tale che molti non sopravvissero. I treni merci composti anche da 60 vagoni, stipati di persone e ben sigillati, lasciavano dietro di sé una lunga scia di morti e ad ogni fermata i vagoni venivano svuotati dai cadaveri. Durante i trasporti estivi le persone morivano di sete e di disidratazione, mentre le condizioni di vita che attendevano i deportati a destinazione non erano poi molto migliori.

Se si prende in considerazione il solo periodo in cui furono operanti i patti sovietico-nazisti – settembre 1939-giugno 1941 – si può affermare che per Polacchi, Ucraini, Bielorussi il dominio sovietico si rivelò più letale di quello nazista [Gross 1991: 67-73].

5.7. Arruolamento nell’Armata Rossa

Una delle conseguenze del conferimento della cittadinanza sovietica agli abitanti delle terre orientali della Polonia fu l’arruolamento nell’Armata Rossa, a partire dall’autunno del 1940. Nel 1940-41 la coscrizione fu effettuata per i nati negli anni 1918 e 1919 e per una parte dei nati nel 1917. Furono arruolati circa 150.000 giovani, di cui il 38 per cento Ucraini, il 33 per cento Polacchi, il 17 per cento Bielorussi e poco meno del 10 per cento Ebrei. [Hryciuk: 199]

5.8. Cacciati di casa

I cittadini che non venivano uccisi, deportati, imprigionati erano comunque consapevoli che ordini improvvisi e ingiustificati di reclusione o deportazione potevano in ogni momento colpirli. In ogni caso, chi non veniva deportato doveva far fronte ad altre forme di reinsediamento coatto quando, su ingiunzione delle autorità sovietiche, dovevano abbandonare le loro case con tutto ciò che vi si trovava.

L’8 gennaio 1940 un giornale pubblicato a Leopoli dai Sovietici informava che 5.407 spaziosi appartamenti sarebbero stati assegnati ai lavoratori e alle loro famiglie. Non si trattava però di case di nuova costruzione bensì di appartamenti dai quali erano stati cacciati i proprietari e gli inquilini polacchi. Inoltre, non erano destinati ai lavoratori ma alle migliaia di Sovietici, ufficiali dell’Armata Rossa, poliziotti, impiegati, membri del partito comunista che Mosca aveva destinato a governare l’Ucraina e la Bielorussia occidentali invase il 17 settembre. Gli abitanti cacciati dovevano spesso abbandonare le loro case in 48 ore lasciando tutti i mobili, le suppellettili e le attrezzature ai nuovi occupanti, per andare a vivere, se erano fortunati, presso altre famiglie, stipati in poche stanze e in spazi ridottissimi nei quali era impossibile mantenere private le attività e gli scambi usuali. Come riferì poi una vittima e testimone: «La vita personale perse il suo carattere privato. Lo spazio abitativo assegnato a ogni persona era rigorosamente delimitato. La solitudine, la libertà personale, la possibilità di riposare dopo il lavoro, non esistevano più. Si era costantemente sotto osservazione e spiati, come attraverso uno spioncino in prigione». [Gross 2002: 189-190]

5.9. Conclusioni sulle forme della repressione sovietica

Nel corso dei 21 mesi di occupazione sovietica della Polonia orientale, le varie forme di repressione – prigionieri di guerra, arresti, deportazioni, reinsediamento, reclutamento di rifugiati per lavorare nell’interno dell’Unione Sovietica, coscrizione nell’Armata Rossa – causarono la morte o l’espulsione dalla Polonia orientale (il più delle volte definitiva) di 720.000 persone, comprese almeno 150.000-170.000 persone (anche di più se si includono i prigionieri di guerra) che vivevano nella Polonia centrale e occidentale prima del settembre 1939. [Hryciuk: 199-200]

I Polacchi costituivano la quota più alta dei repressi tra gli abitanti della Polonia orientale prima della guerra, gli Ebrei erano i più numerosi tra i rifugiati (oltre l’80%). Al momento non sono disponibili dati più precisi sulla composizione nazionale dei repressi. Le difficoltà nel determinare l’entità delle perdite subite da ciascun gruppo nazionale nella Polonia occupata derivano anche da dubbi riguardanti la precisione dei dati sovietici sulla composizione nazionale di coloro che sono stati repressi così come appaiono nei registri dell’NKVD. Le autorità sovietiche erano inclini a ridurre la popolazione polacca nella Polonia occupata. Nell’ex voivodato della Volinia le statistiche sovietiche mostravano un calo del numero di Polacchi di un terzo; un calo ancora maggiore è stato notato nella regione dei Subcarpazi. Sembra che l’entità della falsificazione nelle regioni incorporate nella RSS bielorussa sia stata simile. Non si sa nemmeno fino a che punto le dichiarazioni delle persone represse corrispondessero alla realtà; molti potrebbero aver dato una nazionalità diversa dalla polacca nella speranza di migliorare la loro sorte. Diversi documenti sovietici riguardanti le persone arrestate sembrano confermare l’esistenza di tali casi.

«Considerando le carenze dei documenti sovietici finora disponibili e le contraddizioni riscontrate nei documenti polacchi (principalmente nelle dichiarazioni dei testimoni o nelle memorie degli esuli e dei detenuti dei campi), è impossibile determinare con precisione il numero di vite perse a causa delle dure condizioni materiali, della fame o delle malattie durante l’esilio interno, nelle prigioni e nei campi». [Hryciuk: 178]

Data di deportazione Prime stime Gurjanow Głowacki
Febbraio 1940 220.000 143.000 140.000
Aprile 1940 320.000 61.000 61.000
Giugno-Luglio 1940 240.000 75.267 78.000
Maggio-Giugno 1941 200.000 36.000 40.000
Totale 980.000 315.267 319.000

Tabella, qui ridisegnata, in Jolluck 2002: 13

La tabella seguente (tratta da Jolluck 2002, p. 13) mette insieme i dati delle prime stime dei deportati in Unione Sovietica tra il 1939 e il 1941 e la revisione di due storici, Alexander Gurjanow e Albin Glowacki.

Ma la revisione di Gurjanow e Glowacki è stata a sua volta criticata perché i documenti dell’NKVD che utilizzano non sono del tutto affidabili e perché non è stato ancora dato accesso completo a tutti gli archivi sovietici. Utilizzando le statistiche dei rimpatri successivi e gli studi demografici, alcuni studiosi continuano ad affermare che il numero totale dei deportati raggiunse quasi il milione. Allora, considera anche Jolluck, la revisione completa dei dati non è ancora possibile. [Jolluck 2002: 11]

6. La sovietizzazione della Polonia orientale

6.1. Comitati e milizie di villaggio

L’assoggettamento delle regioni occupate venne realizzato anche attraverso forme di collaborazione – cercata, indotta o forzata – da parte di determinati settori della popolazione locale che accettò di far parte di comitati e milizie di villaggio cui i Sovietici affidarono l’amministrazione delle comunità soprattutto quelle fuori dalle città più grandi.

I precedenti leaders e amministratori delle comunità infatti erano stati sistematicamente uccisi, arrestati, imprigionati, deportati. Per questa sorta di pulizia politico-amministrativa e di decapitazione delle élite locali i Sovietici si servirono sia degli archivi subito sequestrati sia dei delatori e collaborazionisti che, per interesse o convinzione, si erano resi disponibili a collaborare con le nuove autorità.

Tra delatori e collaborazionisti vi erano i volontari – simpatizzanti di sinistra, comunisti, Ebrei – e gli eletti in assemblee convocate dai Sovietici in ogni villaggio. Spesso in tali assemblee furono eletti estremisti, individui con precedenti penali o socialmente emarginati, braccianti agricoli non qualificati e senza terra, adolescenti delle minoranze, i quali vennero messi alla guida del villaggio nonostante l’assenza di competenze e l’aperto disprezzo dei loro vicini. Le nuove autorità non esitarono neppure ad utilizzare in qualità di nuovi amministratori assassini, ladri, rapinatori, delinquenti comuni. Lo storico J.T. Gross ha documentato la «presenza diffusa di criminali nell’amministrazione sponsorizzata dai Sovietici». [Gross 2002: 54-59]

Ne seguì una fase di violenza diffusa e arbitraria alimentata e giustificata dall’assenza di norme che metteva i cittadini gli uni contro gli altri secondo una strategia voluta dai Sovietici, i quali intesero così creare i presupposti della sovietizzazione attizzando la paura dei propri simili in ogni comunità, eliminandone i leader e minandone la coesione morale. [Gross 2002: 67-69]

6.2. Elezioni

Fin dall’inizio lo scopo dei Sovietici non era quello di riportare la pace e l’ordine nelle regioni polacche appena conquistate in modo da poterle governare e sfruttare tranquillamente, ma di prepararne l’annessione all’Unione Sovietica, in altre parole, di gettare le basi per l’instaurazione di una società sovietica. [Grudzinska, Gross: 20]

Un aspetto significativo della sovietizzazione furono le elezioni che dovevano far apparire l’annessione delle regioni occupate alla repubblica sovietica dell’Ucraina e alla repubblica sovietica della Bielorussia come una richiesta dal basso. In realtà, si trattò di plebisciti truccati con liste chiuse di candidati scelti dagli occupanti. Nessuno si sorprese all’annuncio che le liste ufficiali avevano avuto il 92% dei voti. [Davies 2005: 327]

Gli abitanti dell’Ucraina occidentale e della Bielorussia occidentale vennero “incentivati” a partecipare alle riunioni pre-elettorali in cui venivano scelti i candidati con la minaccia che sarebbero stati licenziati dal lavoro, arrestati o mandati in Siberia. Tali riunioni si svolsero secondo un copione semplice e scontato: il delegato dei Sovietici che presiedeva l’assemblea, dopo aver presentato un candidato, poneva la domanda di rito: «Chi è contrario all’elezione del candidato»? Siccome nessuno obbiettava e nessuno interveniva, la riunione veniva sciolta. [Gross 1991: 69]

Il giorno delle elezioni, domenica 22 ottobre 1939, fin dalle prime ore del mattino, miliziani, funzionari sovietici, soldati, portinai si adoperarono in ogni modo per spingere gli elettori al voto e i più restii vennero portati ai seggi elettorali sotto scorta armata. Le operazioni elettorali erano attentamente sorvegliate e monitorate da funzionari sovietici e soldati armati; agli elettori veniva consegnata una scheda che spesso doveva essere messa in una busta numerata; in alcuni seggi vennero consegnate delle buste chiuse che dovevano solo essere depositate nell’urna; in un villaggio ai contadini venne chiesto di firmare le schede elettorali prima di restituirle.

Il 26 e 28 ottobre le Assemblee nazionali dell’Ucraina occidentale e della Bielorussia occidentale, "elette" nel modo che si è detto, si riunirono nei teatri di Leopoli e Białystok e votarono per chiedere l’incorporazione dei territori occupati nelle repubbliche sovietiche dell’Ucraina e della Bielorussia e dunque nell’Unione Sovietica. A Leopoli ci fu un solo voto contrario. [Gross 2002: 107-108; Gross 1991: 70]

A tale scopo vennero inviate a Mosca due delegazioni, 66 membri per l’Ucraina occidentale, 65 per la Bielorussia occidentale, le cui richieste vennero approvate all’unanimità dal Soviet Supremo il 1° e il 2 novembre 1939.

Entrambe le delegazioni trascorsero dodici giorni a Mosca. In una lettera a Stalin scritta poco prima di lasciare la capitale sovietica, la delegazione dell’Ucraina occidentale espresse sentiti ringraziamenti: «Dal regno delle tenebre e delle sofferenze sconfinate che la nazione dell’Ucraina occidentale ha sopportato per seicento lunghi anni, ci siamo ritrovati nel magico paese della vera felicità e della vera libertà del popolo».

Nel frattempo, un’ondata di arresti si era abbattuta sull’Ucraina occidentale e sulla Bielorussia occidentale. Al ritorno a casa, i delegati dell’assemblea che occasionalmente vennero a contatto con i loro elettori furono fischiati e zittiti, o accolti con un silenzio di tomba dopo essere stati sollecitati a rispondere con “lunga vita” ed “evviva”. [Gross 2002: 107-108]

Nikita Krusciov, primo segretario del Partito comunista ucraino, ha ricordato a questo modo quelle elezioni: «Non ho sentito un solo intervento che esprimesse il più piccolo dubbio sul fatto che il potere sovietico non dovesse essere instaurato … Era gratificante per me vedere che la classe operaia, i contadini e l’intellighenzia operaia stavano cominciando a capire gli insegnamenti marxisti-leninisti». Ma, evidentemente, gli insegnamenti marxisti-leninisti non erano poi così persuasivi, tant’è che lo stesso Krusciov precisa: «Allo stesso tempo, eseguivamo degli arresti. Era nostra opinione che questi arresti servissero a rafforzare lo stato sovietico e a spianare la strada alla costruzione del socialismo sui principi marxisti-leninisti». [cit. in Davies 2005: 329]

A proposito delle elezioni farsa, ha concluso J.T. Gross: «Per gli abitanti dell’Ucraina occidentale e della Bielorussia occidentale, le elezioni di ottobre rappresentarono la prima esposizione alla moderna mobilitazione politica di massa. Fu una lezione pratica di intimidazione e collaborazione, uno straordinario condizionamento sia per i sudditi del nuovo ordine sia per i suoi esecutori. Durante le elezioni di ottobre gli abitanti vennero sottoposti all’esercizio del nudo potere: destinatari di discorsi insensati, dovevano solo ascoltare; sballottati qua e là in modo capriccioso, non avevano nessuno con cui lamentarsi; sottomettendosi alle autorità e votando, la maggior parte degli abitanti dell’Ucraina occidentale e della Bielorussia occidentale persero la propria innocenza. Avevano dato un contributo al nuovo ordine. L’unica interpretazione che spiega l’altrimenti assurdo ammassamento del popolo nelle riunioni pre-elettorali e poi nelle cabine elettorali consiste nel riconoscimento che le autorità sovietiche non hanno mai cercato la partecipazione volontaria della popolazione da loro controllata, ma solo la complicità». [Gross 1991: 70]

6.3. Socializzazione, scuola, indottrinamento

Sulla via della costruzione di un nuovo sistema economico-sociale, un aspetto importante del progetto dei Bolscevichi era l’idea di un uomo nuovo che richiedeva nuove pratiche di socializzazione riservate ai bambini e ai giovani. Di qui l’attenzione dei Sovietici, fin dai primi mesi dell’occupazione della Polonia orientale, all’edificazione di un nuovo sistema scolastico che, sgombrate le macerie del precedente ordine distrutto, doveva fornire ai giovani quelle conoscenze e, soprattutto, quella conformità all’ordine comunista, che avrebbe garantito i meccanismi di controllo e la stabilizzazione della nuova autocrazia nei territori appena occupati.

La distruzione del sistema scolastico polacco procedette lungo due direttrici: secolarizzazione e depolonizzazione. La religione, precedentemente insegnata come materia separata, fu bandita dalle scuole assieme alla storia, alla lingua polacca (generalmente limitata a due ore alla settimana), al latino e alla geografia. I crocifissi furono tirati giù dalle pareti delle aule assieme all’aquila polacca (emblema nazionale) e ai ritratti degli statisti polacchi, sostituiti con le icone dei rivoluzionari comunisti. [Gross 2002: 126-127]

I crocifissi venivano talvolta lasciati sui muri delle aule, unendovi però i ritratti di Lenin e Stalin; la composizione ricordava alla gente del posto il Calvario e suscitava osservazioni sarcastiche sul fatto che ancora una volta Cristo venisse messo in croce e tra due criminali. [Gross 2002: 126-127]

Quanto alla lingua dell’insegnamento scolastico, non di rado le assemblee dei genitori nelle aree urbane furono costrette ad accettare le soluzioni imposte dagli occupanti, come illustra la seguente testimonianza: «Fu convocata una riunione di tutti i genitori per decidere se il polacco o il russo sarebbe stata la lingua di insegnamento. Durante l’incontro, alla presenza dell’NKVD, i genitori scoprirono che dovevano votare per il russo o per il bielorusso. A causa di questo piano, alcune donne si alzarono e cercarono di lasciare la riunione, ma sotto la minaccia delle pistole spianate dovettero tornare ai loro posti. Il presidente della riunione, un comunista, si rivolse all’assemblea e disse che avrebbe considerato ogni opposizione come un sabotaggio e che la gente doveva dimenticare la lingua polacca». [cit. in Gross 2002: 127]

C’era un aspetto del nuovo ordine che aveva il sostegno di Ucraini e Bielorussi, minoranze nella Polonia pre-1939: l’introduzione delle loro lingue nelle scuole, negli uffici, nella toponomastica, ciò che, almeno all’inizio, veniva incontro alle richieste di riconoscimento della loro identità nazionale.

La lingua polacca non solo venne privata del privilegio di essere la lingua di uno Stato per essere ridotta allo stato di una lingua fra le altre, ma fu spesso vietata a scuola come nella comunicazione quotidiana. Furono vietati persino i manuali in polacco di matematica, chimica, fisica e biologia. Anche l’ebraico venne bandito dalle scuole perché identificato come lingua dei nazionalisti ebrei e dunque del Sionismo. [Gross 2002: 128-129]

Ma il controllo sul sistema di istruzione e sulle attività scolastiche non era limitato alla selezione delle materie e dei libri. Un pervasivo meccanismo di sorveglianza e delazione, che sollecitava gli studenti a riferire sulle lezioni e sui docenti, garantiva che gli insegnanti non solo non parlassero contro il regime sovietico, ma fossero agenti attivi dell’indottrinamento marxista-leninista.

Ispettori esterni visitavano continuamente le scuole, in apparenza per verificare la qualità del lavoro scolastico e i progressi nell’apprendimento, ma in realtà per accertare il conformismo politico del personale docente. Il che significava verificare se le aquile e i crocifissi erano stati tolti dalle pareti delle aule, se i vecchi ritratti erano stati sostituiti con quelli nuovi, se i bambini ancora disponevano di oggetti religiosi, e, in particolare, cosa comunicavano gli insegnanti ai loro studenti.

Gli ispettori disponevano di un accurato documento di controllo, il piano di lavoro che ogni insegnante era tenuto ad approntare e che includeva anche le attività extrascolastiche e gli incontri interni ed esterni alla scuola con i genitori degli studenti. Un insegnante ricorda che il piano dell’insegnante per ogni lezione, indipendentemente dalla materia, doveva includere un argomento che dimostrasse che Dio non esiste. [Gross 2002: 129-130]

Un altro insegnante ha scritto: «Era un lavoro orribile. I bambini gridavano continuamente: “Vogliamo studiare dai nostri libri”. Non volevano usare libri di testo bielorussi sconosciuti, che detestavano. Così, dopo un mese, ho preso un congedo da scuola e me ne sono andato”!» [cit. in Gross 2002: 130]. Ma solo pochi fortunati potevano permettersi di andarsene. Inoltre, gli insegnanti erano a volte messi sotto pressione dalla comunità o dal loro stesso senso di responsabilità affinché non abbandonassero il posto di lavoro e continuassero così a proteggere i bambini locali dallo zelo di educatori che sarebbero stati nominati al loro posto e che, presumibilmente, avrebbero attuato con maggiore forza e convinzione la sovietizzazione della scuola. [Gross 2002: 129-130]

I bolscevichi portano un cavallo in chiesa.

Disegno di un bambino polacco deportato: I bolscevichi portano un cavallo in chiesa.
(Fonte: Grundzinska, Gross)

Un altro aspetto importante dei nuovi programmi scolastici era costituito dalla propaganda ateistica volta a sradicare la fede cristiana e a promuovere quella che era in effetti una nuova religione, il culto di Stalin. A tal fine vennero montati degli spettacolini che dovevano esemplificare l’onnipotenza di Stalin e del potere sovietico e l’incapacità di Dio di fornire beni terreni. Si suggeriva agli scolari di pregare Dio affinché distribuisse dolciumi; gli scolari pregavano ma non succedeva niente. Veniva quindi chiesto di rivolgersi a Stalin, e, com’era prevedibile, il miracolo si verificava: le porte delle aule si aprivano e veniva consegnato un cesto pieno di caramelle e panini. Più piccoli erano i bambini, meglio la messinscena funzionava. [Gross 2002: 130-131]

Particolare attenzione le autorità sovietiche dedicarono a sganciare i periodi di vacanza scolastica dalle festività religiose e ad eliminare i simboli connessi, per sostituirli con festività e simboli civili svuotati dei contenuti tradizionali, l’”albero di Natale”, ad esempio, venne sostituito da un “albero Sovietico”.

Osserva Gross: «È molto dubbio che questa strenua campagna di secolarizzazione abbia indebolito lo spirito religioso della popolazione. Deve però aver ulteriormente minato il senso di responsabilità sociale promuovendo la doppiezza e la menzogna, poiché costringeva molte persone a parlare e comportarsi pubblicamente in modi incompatibili con le loro convinzioni private. Ridicolizzando i fondamenti etici delle credenze della maggior parte delle persone, gli organizzatori del nuovo ordine, forse non del tutto inconsapevolmente, stavano invitando alla licenza». [Gross 2002: 133]

6.4. La nuova economia[ 6 ]

La politica economica dei Sovietici nei territori polacchi conquistati seguì due direttrici, una dettata dall’imperialismo russo-comunista, l’altra, ideologica, derivata dal marxismo-leninismo. L’esito della prima, secondo le esplicite intenzioni di Stalin, doveva essere la distruzione della Polonia come Stato e cultura indipendenti tramite l’annientamento delle sue classi dirigenti, la cancellazione del suo passato e della sua cultura, l’incorporazione nelle repubbliche sovietiche governate da Mosca. L’esito della seconda doveva essere la distruzione della proprietà privata e la sua sostituzione con la proprietà statale tramite la collettivizzazione nelle campagne e nell’industria che avrebbe instaurato anche nei territori polacchi il socialismo nella sua versione staliniano-comunista.

Nei primi giorni dell’occupazione i Sovietici introdussero il rublo, che circolò insieme con lo złoty polacco, sulla base della parità di 1:1, ben lontana dal rapporto reale tra le due monete nel periodo precedente la guerra, quando nelle contrattazioni ufficiali lo złoty era fino a sette volte superiore al rublo. Tale provvedimento da un lato causò la svalutazione dello złoty, dall’altro consentì al personale sovietico di effettuare massici acquisti nei negozi polacchi, impossibili in patria.

Tali provvedimenti erano parte di una politica globale di assoggettamento e sfruttamento dei territori appena acquisiti, ma servivano anche a prevenire comportamenti incontrollati tra gli stessi occupanti. Le autorità sovietiche si erano rese conto che i soldati dell’Armata Rossa, vedendo l’abbondanza di viveri e di beni materiali, si sarebbero dati al saccheggio, a meno che non gli fossero forniti i mezzi di acquisto. E i mezzi sembravano non mancare: non sappiamo se ufficiali e soldati ricevettero bonus speciali in rubli, o se furono autorizzati e incoraggiati a portare con sé i loro risparmi (se ne avevano), o se i prezzi erano così ridicolmente bassi che, quando fu introdotta la parità rublo-złoty, la loro paga fu sufficiente per lanciarli in una corsa all’acquisto. [Grudzinska, Gross: 12 e 247 nota 17]

In realtà, gli amministratori sovietici dei territori conquistati erano poveri e, come sopraffatti dalla quantità e varietà di beni e merci disponibili, furono presi dalla smania di possederli. Secondo i ricordi di un giornalista ucraino che arrivò a Leopoli da Kiev, circa due settimane dopo che l’Armata Rossa aveva occupato l’Ucraina occidentale, l’eccitazione travolse la capitale della repubblica. Tutti volevano andare a Leopoli o a Tarnopol per fare acquisti, e la komandirovka (autorizzazione di viaggio) in qualche città del territorio appena occupato divenne il documento più ricercato. Le persone erano letteralmente affamate di oggetti materiali. [Grudzinska, Gross: 247 nota 18]

La circolazione parallela delle due valute continuò fino al 21 dicembre 1939 quando, senza preavviso, lo złoty fu ritirato dal circuito finanziario. Si trattò di una svolta improvvisa e inaspettata che ebbe un impatto disastroso sulla popolazione locale che, non essendo stata avvertita, non ebbe la possibilità di convertire gli złoty posseduti.

L’eliminazione dello złoty come moneta legale distrusse, senza dubbio intenzionalmente, il valore dei risparmi e rovinò le classi agiate che avrebbero potuto sopravvivere più a lungo grazie a tali riserve. Tutti i depositi bancari in złoty furono confiscati e i libretti distrutti. Un ulteriore effetto, anche questo previsto dalle autorità, fu che gli imprenditori e i commercianti privati rimasti con il loro capitale in złoty si trovarono nell’impossibilità di sostituire le scorte. Con questo semplice passo, quindi, le autorità sovietiche riuscirono a mettere in ginocchio molti di quegli esponenti del mondo degli affari e della comunità polacca che avevano designato come loro nemici. Di conseguenza, a questi gruppi fu imposta una dipendenza economica quasi totale dal nuovo regime.

L’ideologia comunista, che giustificava la sottrazione di proprietà pubbliche e private a favore dello stato sovietico, portò nell’ottobre 1939 ai decreti di nazionalizzazione di banche, imprese industriali e commerciali, centri di intrattenimento (ad esempio sale da ballo), farmacie. La «Pravda», annunciando la promulgazione del decreto relativo nell’Ucraina occidentale, scrisse che da quel momento in avanti tutte le banche, tutte le grandi fabbriche, le miniere e le ferrovie sarebbero state considerate come proprietà del popolo, cioè dello Stato…

I bolscevichi cacciano lontano dai vagoni .

Disegno di un bambino polacco, nato nel 1928. L'iscrizione sul disegno recita: «I bolscevichi stanno cacciando la popolazione civile dai vagoni ferroviari in cui deportavano i Polacchi… Questa è l'immagine che abbiamo visto dai vagoni».
(Fonte: Grundzinska, Gross)

I Sovietici procedettero quindi a creare in territorio polacco i propri uffici delle entrate, i quali, almeno in alcune aree non riscossero solo le somme “dovute” allo stato sovietico per il periodo in corso, ma anche gli arretrati dovuti allo stato polacco! Gli accertamenti fiscali si rivelarono subito anche degli strumenti politici e non solo finanziari. Richieste fiscali esorbitanti furono utilizzate per portare artigiani e imprenditori indipendenti prima alla bancarotta e poi all’ingresso nelle imprese cooperative istituite dai nuovi poteri. Ad esempio, il proprietario di una farmacia di Ostróg (oggi in Ucraina) si vide accertare un arretrato fiscale di 5600 rubli. Poiché non era in grado di pagare l’intera somma, il suo negozio fu confiscato. I locali del negozio e le scorte vennero valutati complessivamente 5000 rubli e quindi non solo la sua attività fu confiscata, ma fu costretto a pagare altri 600 rubli a saldo.

Esazioni simili furono utilizzate a carico degli agricoltori per spingerli a entrare nelle fattorie collettivizzate e dei proprietari di case per costringerli ad abbandonare gli alloggi. Neppure le chiese sfuggirono a tale trattamento, poiché l’obiettivo era chiuderle.

La confisca delle proprietà polacche avvenne su vasta scala, sia “legalmente”, in conformità con i decreti di nazionalizzazione ed espropriazione, sia su base spontanea e arbitraria.

Fin dal loro arrivo, le unità dell’Armata Rossa cominciarono a requisire mais, foraggio per il bestiame e generi alimentari (farina, latticini, ecc.) senza alcun compenso. Uno stratagemma caratteristico era quello di dire ai proprietari che i prodotti erano solo “presi in prestito” e che il compenso sarebbe arrivato successivamente, cosa che, ovviamente, non avvenne mai.

Nei primi mesi dopo l’invasione i contadini più poveri furono incoraggiati ad appropriarsi delle terre e dei beni dei proprietari terrieri o dei coloni polacchi. Ma i contadini non ebbero la possibilità di godere troppo a lungo della nuova situazione: come si è già detto, furono presto obbligati a pagare forti tasse, comprese quelle arretrate dovute allo stato polacco; dovettero sottostare a corvée obbligatorie (taglio o trasporto di legna o costruzione di strade); vennero spesso “invitati” a fare dei “regali” all’Armata Rossa: cibo, carne, fieno, pollame, o qualsiasi cosa fosse deciso durante le riunioni organizzate dai comitati dei villaggi. [Grudzinska, Gross: 13]

I comitati dei villaggi furono incaricati di compilare dettagliati inventari del bestiame e dei beni in possesso di ogni famiglia, ciò che consentiva l’imposizione di minuziose e severe restrizioni, sicché nulla poteva essere venduto o trasferito senza l’autorizzazione del comitato e nessuno, senza un permesso speciale, poteva uccidere un vitello, un maiale, un pollo.

In effetti, non esistevano più i diritti di proprietà, tant’è che la ridistribuzione della terra dei primi giorni, che aveva illuso i contadini poveri ucraini e bielorussi, si rivelò solo una misura strumentale e temporanea, dunque solo un espediente per acquisire il sostegno iniziale degli strati più bassi della società locale. [Gross 1991: 67-68]

Niente di tutto ciò dovrebbe sorprendere, tenuto conto del fatto che i Sovietici ritenevano che la collettivizzazione delle campagne fosse l’unica soluzione compatibile con la loro ideologia comunista. E la confisca della terra avvenne spesso con la violenza e la brutalità già sperimentate in Urss negli anni Trenta. Gruppi di militanti vennero mobilitati in ogni comunità per dividere la terra, confiscare il bestiame, uccidere se necessario. Ma la maggior parte delle persone era sospettosa nei confronti della ridistribuzione della terra, poiché veniva effettuata in modo frettoloso e senza formalità. Pochi coltivarono gli appezzamenti assegnati dal comitato del villaggio. In alcuni casi, i contadini restituirono agli ex proprietari vari oggetti che erano stati predati nelle proprietà terriere. «La redistribuzione, in effetti, serviva prima di tutto a terrorizzare la popolazione locale, a creare un’atmosfera di insicurezza e paura, un prerequisito necessario per la futura attuazione della rivoluzione sociale radicale. Le atrocità e l’illegalità dilagante dell’epoca sconvolsero profondamente tutte le comunità, rendendole disponibili ad accettare richieste che altrimenti sarebbero state considerate intollerabili». [Grudzinska, Gross: 14]

6.4.1. Agricoltura. Le nuove autorità mostrarono però una certa cautela nel collettivizzare l’agricoltura. La propaganda bolscevica aveva ampiamente strombazzato i noti slogan che promettevano “la terra al contadino che la lavora”. In alcune zone i contadini presero alla lettera tali slogan e procedettero alla divisione e appropriazione autonoma delle terre. La divisione dal basso e l’assegnazione di appezzamenti ai contadini non furono però gradite alle autorità sovietiche in quanto erano pur sempre delle modalità di accesso alla proprietà privata, intollerabili per i comunisti. D’altra parte, si esitava a imporre la collettivizzazione su larga scala, forse per la sensazione che mosse premature in questa direzione avrebbero unito i contadini polacchi e ucraini in un’ostilità comune verso i loro nuovi governanti.

Nelle due principali aree della zona di occupazione sovietica, l’Ucraina occidentale e la Bielorussia occidentale, l’espropriazione dei proprietari terrieri venne sancita con i decreti del 28 e del 30 ottobre. I due decreti stabilivano: i terreni appartenenti ai proprietari terrieri, alle chiese, ai monasteri e ai funzionari pubblici di alto livello, ecc. con tutti gli edifici, le scorte e i beni, dovevano essere confiscati senza compensazione. Questo piano doveva essere portato avanti da comitati di contadini sotto la supervisione delle autorità locali. Da quel momento in poi tutte le proprietà sarebbero appartenute allo Stato. Una certa quantità di terra fu distribuita ai contadini senza terra, ai braccianti e a quei contadini le cui proprietà non superavano gli 8 ettari.

Le autorità sovietiche iniziarono a organizzare le fattorie collettive (kolchozy) lentamente e nel processo incontrarono l’opposizione degli abitanti locali. La resistenza alla collettivizzazione era segnalata sia dai risultati mediocri della produzione agricola, sia dalle dichiarazioni ufficiali dei sovietici sull’”immaturità” della popolazione. Nei distretti di Tarnopol e Stanisławów, che avevano rispettivamente 5 e 24 fattorie collettive nell’estate del 1940, le cifre erano salite a 78 e 234 nella primavera del 1941, ma in ogni caso si trattava solo di una piccola percentuale delle proprietà terriere complessive. Nel distretto di Drohobycz, ad esempio, le autorità avevano creato 225 kolchozy nella primavera del 1941, ma questo lasciava ancora l’85% delle proprietà agricole in mani private.

La creazione di sowchozy (fattorie statali) fu ancora più lenta e poche erano quelle esistenti nell’estate del 1941. Le fattorie di questo tipo venivano di solito create a partire dalle aziende di allevamento e lattiero-casearie più ampie. Va ricordato, però, che i Sovietici occuparono questi territori per soli 21 mesi prima dell’attacco tedesco del giugno 1941: un tempo certo insufficiente per portare avanti una rivoluzione sociale e agricola. Sembra inoltre che i Sovietici tendessero ad accelerare il ritmo nel corso del 1941, come indicherebbe la creazione di un numero considerevole di centri per trattori e macchinari (MTS) nelle aree occupate. Tali macchinari non avrebbero potuto essere impiegati in modo produttivo senza una certa razionalizzazione del modello tradizionale di piccole proprietà.

Nonostante le affermazioni della propaganda sovietica, la produttività agricola diminuì rispetto al periodo prebellico. Le ragioni erano molteplici, ma alla base c’era un problema psicologico: il contadino non aveva fiducia nelle nuove autorità e aveva poche motivazioni per produrre e affidare le sue merci al mercato. Infatti, la maggior parte delle scorte alimentari dei contadini era stata requisita dall’Armata Rossa nell’autunno del 1939. In alcuni casi le requisizioni furono effettuate in modo così capillare che le aziende agricole rimasero senza grano per la semina, e quindi non si poté fare molto. Inoltre, c’erano poche speranze di guadagnare legalmente quando il prezzo di acquisto del mais fissato dal governo era di 28 rubli al moggio, mentre il prezzo sul mercato libero era di 400-500 rubli. Anche quei contadini che riuscirono ad accumulare grandi somme di rubli sovietici come pagamento per le loro consegne, si accorsero che a causa dell’inflazione il potere d’acquisto del loro denaro si riduceva rapidamente. Tutto ciò che volevano comprare in città era aumentato enormemente di prezzo.

Le difficoltà del settore agricolo non erano limitate solo ai raccolti. Anche il numero di bovini ed equini nelle aree occupate diminuì, in particolare durante il 1939-40, quando le perdite dell’Armata Rossa dovute alle operazioni militari furono compensate dalle requisizioni. Nell’inverno del 1939-40 si verificò un’ondata di uccisioni di bestiame, causate sia dal timore delle requisizioni sia dal rischio che i contadini correvano di essere deportati in Russia.

6.4.2. Industria. A differenza del settore agricolo, in cui i progressi nella nazionalizzazione furono cauti e lenti, il controllo dell’industria precedette in modo rapido ed esteso. I decreti di nazionalizzazione avevano trasferito tutte le banche, le fabbriche più grandi, le aziende industriali, le miniere e le ferrovie allo Stato. Di fatto, le autorità sovietiche nazionalizzarono non solo l’industria media e pesante, ma anche le piccole fabbriche; inoltre, presero il controllo di quasi tutta la produzione artigianale. Le imprese locali furono inserite in un intricato schema amministrativo che prevedeva la loro subordinazione, a seconda della loro importanza, o alle autorità locali o ai Commissariati del popolo delle Repubbliche ucraina e bielorussa o addirittura ai Commissariati dell’URSS a Mosca. Alcune imprese industriali locali furono incorporate in trust situati in genere al di fuori delle aree occupate, il che significava che l’impresa locale perdeva col tempo ogni traccia di autonomia o individualità. Un’altra forma di amalgama era il trust, che includeva vari rami della produzione industriale. Ad esempio, nella Galizia orientale il trust farmaceutico, lungi dal limitarsi alla fornitura di farmaci, assunse il controllo di tipografie, fabbriche di vetro, scatole, astucci e cartoni. Nel distretto di Vilnius un trust di segherie si impadronì non solo delle segherie, ma anche delle falegnamerie, delle fabbriche di armadi e di mobili e delle imprese collegate. Al momento dell’occupazione tedesca della regione di Leopoli, nell’estate del 1942, nove dei più importanti distretti industriali dipendevano dai Commissariati dell’URSS a Mosca, 102 imprese facevano capo al Commissariato del Popolo dell’Ucraina a Kiev, mentre 50 imprese erano controllate dalle autorità locali dell’oblast di Leopoli.

In realtà, fin da subito, la politica economica sovietica nella Polonia occupata ebbe tutte le caratteristiche dello sfruttamento predatorio, mentre la ridistribuzione dei beni operò ad esclusivo vantaggio dello Stato sovietico. [Gross 1991: 67]

Le fabbriche, in particolare quasi tutta l’industria tessile di Białystok, furono smantellate e spedite in Russia, dove furono inviate anche grandi partite di semilavorati e prodotti finiti. Vennero smantellati anche gli edifici governativi e le caserme e i componenti – pavimenti di legno, porte, stufe, maniglie di ottone e di ferro, piastrelle – portati in Urss, insieme con attrezzature ospedaliere e scolastiche, mobili, e tutto ciò che poteva essere utile. Inoltre, il petrolio, i generi alimentari e il bestiame predati venivano spediti in Germania in conformità con la clausola di cooperazione economica del Trattato di Confine e di Amicizia con Hitler. [Grudzinska, Gross: 13]

6.4.3. Attività commerciali. Mentre i Sovietici avevano nazionalizzato le imprese industriali con rapidità e determinazione, ma si erano mossi più cautamente nella collettivizzazione dell’agricoltura, la politica relativa alle attività commerciali sembrava essere caratterizzata dall’indecisione. Non ci fu infatti una riorganizzazione immediata secondo le linee sovietiche; mentre le imprese più grandi furono nazionalizzate, nei confronti delle imprese più piccole si adottò una politica più incoerente: alcune furono rilevate dallo Stato, mentre altre furono lasciate nelle mani dei proprietari. All’inizio del 1940, in alcune aree le autorità sovietiche sembrarono assumere un atteggiamento più disponibile nei confronti dei commercianti privati, tant’è che alle imprese più piccole furono promesse un certo numero di licenze commerciali. Si può ipotizzare che si trattasse di un tentativo da parte delle autorità di assicurare che dalle campagne arrivasse nelle città una maggiore quantità di derrate agricole. Come s’è visto, i contadini non volevano vendere a prezzi stracciati i loro prodotti alle aziende statali, ma i commercianti privati, che avevano legami più consolidati con la campagna, avevano forse maggiori possibilità di successo nell’acquisizione dei prodotti alimentari.

Tale disponibilità fu però di breve durata. Ben presto vennero adottati metodi più forti per liquidare le aziende private rimaste, che includevano l’imposizione di tasse e altri mezzi amministrativi. In realtà era rimasto ben poco da vendere. Poco dopo l’occupazione del territorio polacco da parte delle truppe sovietiche, i funzionari avevano compilato un registro delle scorte detenute da dettaglianti e grossisti. Ai negozianti era stato ordinato di rimanere aperti e di vendere le merci ai prezzi precedenti. Seguirono misure repressive contro coloro che si rifiutavano di rispettare le regole o che cercavano di nascondere le merci elencate nel registro. In alcuni casi la pena per quest’ultimo “reato” era la confisca dell’intero stock. Queste misure ebbero il risultato di esaurire rapidamente anche le scorte.

La rete di attività commerciali organizzata dai Sovietici era formata sia da negozi cooperativi sia da negozi di proprietà dello Stato. Ancora una volta, però, sembra che questi ultimi non fossero molto efficienti. In diverse città il sistema di distribuzione si rivelò del tutto inadeguato: alcuni negozi non avevano praticamente nulla da vendere, mentre altri disponevano di eccedenze, di alcune merci almeno. Vennero anche segnalati casi di vendita di prodotti alimentari non adatti al consumo umano. Il livello di burocratizzazione era tale che alcuni negozi non aprivano prima che si formasse una coda. Il quadro generale era quello di un’organizzazione confusa e talvolta caotica, incapace di fornire alla popolazione i beni di prima necessità, fossero essi alimenti o manufatti.

6.4.4. Baratto e mercato nero. La distruzione del commercio privato portò alla comparsa del mercato nero e alla crescita del baratto come mezzo di scambio. Entrambi sarebbero diventati tratti caratteristici della vita nei territori polacchi sotto l’occupazione sovietica. Il commercio, come osservò un residente ebreo, «uscì dai negozi e andò per le strade». I contadini e gli abitanti dei villaggi, scoprendo che potevano comprare poco con la valuta che ricevevano, alla fine rifiutarono il denaro in cambio dei loro beni e accettarono solo oggetti d’uso in cambio di generi alimentari. Anche questo tipo di commercio iniziò a diminuire quando gli abitanti delle città rimasero a corto di utensili, vestiti, biancheria e altri oggetti domestici che potevano essere barattati.

Le condizioni economiche sotto l’occupazione sovietica furono caratterizzate dall’inceppamento del meccanismo di distribuzione dei beni ai consumatori e dall’aumento dei prezzi. La pressione inflazionistica continuò fino alla metà del 1940. In seguito, la domanda del mercato nero, così come il commercio tramite baratto, cominciarono a rallentare e i prezzi iniziarono gradualmente a diminuire. Le ragioni sono diverse: le riserve di denaro e gli oggetti domestici utilizzati per lo scambio o la vendita si erano esauriti e anche i militari e i funzionari civili sovietici erano meno disposti a pagare i prezzi più alti in un mercato che era già stato privato di beni di qualità.

Anche la situazione occupazionale incise sull’andamento dei prezzi. Nelle prime fasi dell’occupazione sovietica, alla maggior parte degli operai e degli impiegati fu richiesto di rimanere al loro posto. Tuttavia, nelle fasi successive, i lavoratori polacchi furono rimossi da posizioni di fiducia o di responsabilità (in alcuni casi arrestati) e il loro posto venne assegnato o a nuovi arrivati dalla Russia o a comunisti locali. I Polacchi furono mantenuti in un ruolo ausiliario e con un salario molto ridotto. Ciò provocò un aumento della disoccupazione tra i colletti bianchi. Il salario medio di un dipendente pubblico era di 200 rubli al mese, gli ingegneri guadagnavano tra i 500 e i 1000 rubli e i dirigenti dei trust 700 rubli. Dal momento che pochi Polacchi rimasero in questi posti qualificati o di supervisione, è lecito supporre che la maggior parte di questi stipendi più alti fossero pagati dall’amministrazione sovietica ai propri incaricati provenienti dall’Urss.

6.4.5. Condizione dei lavoratori. I lavoratori furono assoggettati a uno spietato sistema di controllo, mentre la retribuzione venne subordinata al rispetto di quote di produzione che venivano spesso stabilite in modo casuale e capriccioso. L’assenteismo e il ritardo furono considerati sabotaggi e puniti con multe e galera. A nessuno era permesso cambiare lavoro senza autorizzazione ufficiale, anche se i lavoratori potevano essere spostati da un posto di lavoro a un altro senza essere consultati. Intere fabbriche (assieme ai lavoratori) furono spedite in Unione Sovietica.

Una testimonianza esemplifica in modo molto concreto cosa erano le quote. In un’impresa edile di Leopoli, i lavoratori guadagnavano diciotto rubli al giorno. «Un giorno un controllore delle quote è venuto in un cantiere. Chiese a un ingegnere di selezionare il miglior muratore e gli ordinò di erigere un muro. Dopo mezz’ora contò il numero di mattoni che l’uomo aveva già allineato e poi, moltiplicandoli per sedici, fissò una nuova quota per una giornata di otto ore. Gli ingegneri osservarono che per questa prova avrebbe dovuto essere scelto un muratore medio piuttosto che uno superiore e che la produttività del lavoro era più alta nella prima ora di lavoro, ma senza successo. Fu fissata una nuova quota e da quel giorno i lavoratori non riuscirono a guadagnare più di quattordici rubli al giorno». [Grudzinska, Gross: 14-15; 248, note 23, 24, 25]

6.4.6. Peggioramento delle condizioni di vita. Le politiche economiche sovietiche causarono un notevole calo del tenore di vita per la maggior parte degli abitanti delle regioni occupate. Le classi medie e alte, soprattutto se abitavano in città, una volta che esaurirono le loro riserve di denaro e di beni domestici scambiabili, risultarono le più colpite. Ma tutti soffrirono per la penuria dei beni essenziali. Alcuni Ebrei palestinesi di passaggio a Leopoli diretti in Romania nel febbraio 1940, riferirono che la situazione alimentare era molto grave. Il pane era disponibile «solo a volte» e la gente viveva per lo più di patate e cavoli. Un diplomatico britannico, scrivendo qualche settimana dopo, riferì di una «penosa carenza di frutta, verdura e carne in città». Un inglese che si trovava a Leopoli in quel periodo riferì che sigarette, sapone e cuoio erano introvabili; latte, uova, burro e strutto erano diventati un lusso. Anche il carburante scarseggiava. Fare la spesa nei centri di distribuzione ufficiali – i negozi delle cooperative – comportava di solito lunghe attese. Le code erano diventate rapidamente parte della vita quotidiana dei Polacchi. I residenti non erano abituati ad aspettare lunghe ore per il pane e non accettavano di buon grado questa necessità.

Così nelle regioni ucraine e bielorusse annesse all’Urss furono importate le tradizionali e famigerate code del comunismo sovietico davanti ai pochi negozi che vendevano merci, per lo più pane, a prezzi che la gente poteva permettersi. Ma poiché l’offerta era insufficiente a causa della scarsa produzione e dell’espansione della domanda (nella maggior parte delle città la popolazione aumentò a causa dell’afflusso di rifugiati dall’area occupata dai Tedeschi), la gente restava in piedi per lunghe ore, spesso invano. Molti facevano la fila durante la notte per assicurarsi di poter comprare del cibo la mattina successiva. E poi c’erano i soldati sovietici che, ignorando le code, entravano nei negozi e compravano quanto volevano. I miliziani spesso avvicinavano coloro che erano in coda e arrestavano quelli il cui abbigliamento o aspetto poteva far pensare a un’origine di classe alta o media. [Grudzinska, Gross: 14-15; 248, note 23, 24, 25].

Un Ucraino ebbe a riassumere le nuove condizioni di vita a questo modo: «Tutti vivevano, mangiavano e si vestivano peggio di prima». [Grudzinska, Gross: 14-15; 248, note 23, 24, 25]

In definitiva, l’occupazione sovietica e l’imposizione del modello economico e sociale collettivistico ebbe come effetto una sorta di ristrutturazione egualitaristica, non nel senso di un miglioramento delle condizioni di vita degli strati meno abbienti, ma nel senso di un livellamento verso il basso dell’intero corpo sociale.

7. Perché il potere sovietico nella Polonia orientale doveva manifestarsi attraverso la distruzione della società civile, i massacri e le deportazioni su larga scala

«… il governo sovietico ha dato istruzioni al Comando supremo dell’Armata Rossa di ordinare alle truppe di attraversare la frontiera e di prendere sotto la loro protezione le vite e le proprietà della popolazione dell’Ucraina e della Russia bianca occidentale» [cit. in Gross 2002: 295-296 nota n. 26; Cienciala 2003: 212]. Così Stalin il 17 settembre 1939, il giorno dell’invasione della Polonia.

Ma nei 21 mesi di occupazione centinaia di migliaia di persone furono massacrate, deportate, imprigionate, espulse dalle loro terre e dalle loro case. E le vittime appartenevano a tutte le nazionalità dell’Ucraina occidentale e della Bielorussia occidentale; secondo J.T. Gross quasi il 50% di coloro che furono deportati all’interno dell’Unione Sovietica, sia nei campi che negli insediamenti forzati, erano Ebrei, Ucraini e Bielorussi. [Gross 2002: 225]

Eppure, è sempre Gross che constata, i Sovietici non sembravano essere consapevoli di star commettendo delle atrocità, di agire come potenza occupante, si stupivano anzi che i Polacchi potessero non accettare la nuova situazione, non capire che le azioni dei nuovi governanti erano prassi usuale e normale, in Urss almeno. Infatti, il personale sovietico e le loro famiglie che arrivavano nell’Ucraina occidentale e nella Bielorussia occidentale avevano già sperimentato e continuavano a sperimentare le stesse difficoltà a cui era sottoposta ora la popolazione dei territori occupati. «Vi abituerete, altrimenti creperete», erano soliti dire, sulla base della loro esperienza in patria. «Ci sono tre categorie di persone nell’Unione Sovietica», cercavano di spiegare ai nuovi sudditi sovietici per forza, «quelli che sono stati in prigione, quelli che sono in prigione e quelli che andranno in prigione». Insomma, i nuovi cittadini sovietici dovevano rendersi conto che ormai non vi erano più differenze di trattamento con gli altri abitanti dell’impero comunista: tutti sottoposti da uno stesso potere alle stesse angherie. [Gross 2002: 230].

Ma cos’era quel potere che per perpetuarsi aveva bisogno di perpetrare massacri, deportazioni, torture contro fasce così estese della popolazione e in particolare contro i gruppi e gli strati dirigenti a livello locale e nazionale? Cos’era quel potere che aveva ridotto i propri soldati a macchine incapaci di provare pietà per le proprie vittime e ribrezzo per il proprio sadico operare, ad esempio durante gli spaventosi viaggi dei deportati verso la Siberia? Era il potere di uno stato totalitario in un significato specifico: lo Stato sovietico come potere distruttore di tutte le forme di organizzazione indipendente nelle quali si dispiegava la società civile, di tutte le manifestazioni di autonomia individuale, di ogni istanza che non fosse un’articolazione di quello stesso potere. Non solo, in vista della nascita dell’”Uomo nuovo sovietico” integrato nel nuovo stato socialista occorreva anche indebolire ogni istinto solidaristico, estirpare l’esigenza e il desiderio stesso di mettersi insieme, di associarsi, di costruire relazioni ispirate da bisogni individuali e di gruppo che sfuggissero al controllo del potere totalitario. La costruzione dello Stato riposava anche sulla distruzione dell’individuo. [Gross 2002: 234-235]

Per ottenere questo risultato e integrare le regioni conquistate nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche occorreva preliminarmente appunto distruggere, anche in Polonia, l’esistente: partiti, sindacati, associazioni, relazioni, iniziative individuali e di gruppo. E occorreva distruggere ogni traccia che le secolari esperienze avevano lasciato nelle coscienze degli individui. «Il passato era un pesante fardello che i nuovi leader fecero del loro meglio per distruggere. In particolare, si sforzarono di separare i loro sudditi dalle loro coscienze, dal loro senso di dignità e rispetto di sé. È la coscienza individuale, in quanto portatrice del patrimonio culturale accumulato, l’unica fonte di assenso che lo Stato non può controllare, quindi deve essere demolita per la realizzazione della società sovietica». [Gross 2002: 239]

Dunque, i massacri, le deportazioni, la distruzione della società civile, in Polonia come in Unione Sovietica, costituivano una dimensione intrinseca del potere dello Stato comunista, lo stato distruttore nato nell’ottobre del 1917. I Sovietici lo avevano accettato, ma non i Polacchi, e neppure gli Ucraini, come la storia successiva e quella più recente dimostra.


Note

1. Il primo numero si riferisce alla pagina, il secondo al documento.

2. «Ai fini amministrativi, il territorio della Polonia era diviso in diciassette voivodati, i voivodati erano divisi in contee e le contee in gmina. Il funzionario più alto di un voivodato, nominato dal governo, era un voivoda (l'equivalente più vicino è un prefetto francese). Uno starosta era responsabile di una contea e un voyt responsabile di una gmina. I villaggi eleggevano i propri sołtys e le città i propri sindaci. A diverse città più grandi fu concesso lo status di contee separate» [Gross 2002: XX]. Nel 1939 i Sovietici invasero e occuparono otto voivodati.

3. Sionisti (proponevano la creazione di uno stato ebraico in Palestina). Bundisti (aderenti all’Unione generale dei lavoratori ebrei della Lituania, Polonia e Russia). Assimilazionisti (sostenitori dell’integrazione degli Ebrei nella società dei paesi di appartenenza). Agudas Israel (movimento politico di Ebrei ortodossi).

4. I paragrafi di questa sezione, quando non diversamente indicato, sono basati sul saggio di Gregorz Hryciuk citato in bibliografia.

5. Al massacro dei prigionieri di Kozelsk, Starobelsk, Ostashkov verrà dedicato un altro articolo. In questo sito si veda intanto il paragrafo Katyn e l’assassinio degli ufficiali polacchi in Il patto Molotov-Ribbentrop e la Seconda guerra mondiale secondo Vladimir Putin.

6. I paragrafi di questa sezione, quando non diversamente indicato, sono basati sul saggio di Keith Sword, Soviet Economic Policy in the Annexed Areas citato in bibliografia.

7. Dopo l'invasione tedesca dell'Unione Sovietica nel giugno del 1941 e la firma dell'accordo Sikorski-Mayski, furono presi accordi per il rilascio dei prigionieri e dei deportati polacchi, sia civili che militari. La Persia era il paese di prima destinazione; nei campi di transito i Polacchi furono curati e nutriti. Poi fu data loro l'opportunità di unirsi al 2° Corpo d'armata polacco o di intraprendere altri lavori utili alla guerra contro i Tedeschi.


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