di Vincenzo Medde
1. La rivoluzione russa e i nuovi soggetti morali
La rivoluzione in Russia del febbraio 1917 prima e poi l’insurrezione bolscevica e l’instaurazione di un governo rivoluzionario nel successivo ottobre ebbero subito un forte impatto sull’immaginario dei popoli impoveriti e devastati dalla guerra, suscitando insieme grandi speranze e grandi paure. Tanto più che quella russa prometteva o minacciava di essere solo la prima di una serie di rivoluzioni in Europa.
In Italia, Antonio Gramsci, il 29 aprile 1917 sul «Grido del Popolo», dedicò alla rivoluzione di febbraio – che «necessariamente deve sfociare nel regime socialista» – un articolo dai toni entusiastici e ingenuamente trionfalistici, Note sulla rivoluzione russa, che fondava sul proletario russo attese messianiche di rivolgimento epocale e mondiale, non solo dal punto di vista politico e sociale ma anche dal punto di vista “spirituale” e “morale”. La rivoluzione, in poche settimane, aveva già instaurato un nuovo costume, nuovi stili etici e di responsabilità individuale, tanto che
«In un reclusorio i condannati per reati comuni all’annunzio che erano liberi, risposero di non sentirsi in diritto di accettare la libertà perché dovevano espiare le loro colpe. A Odessa essi si radunarono nel cortile della prigione, e volontariamente giurarono di diventare onesti e di far proposito di vivere del loro lavoro … L’uomo malfattore comune è diventato, nella rivoluzione russa, l’uomo quale Emanuele Kant, il teorizzatore della morale assoluta, aveva predicato, l’uomo che dice: l’immensità del cielo fuori di me, l’imperativo della mia coscienza dentro di me. È la liberazione degli spiriti, è l’instaurazione di una nuova coscienza morale» (A. Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, «Il Grido del Popolo», 29 aprile 1917).
Trockij, commissario del popolo alla Guerra, in seguito avrebbe nutrito qualche dubbio più di Gramsci circa la coscienza morale kantiana dei proletari russi se, per arginare le diserzioni nella Armata rossa (3.700.000 in due anni e mezzo), non esitò a utilizzare come ostaggi le famiglie, che avrebbero pagato per i loro congiunti che avessero abbandonato l’esercito.
Bambini di strada durante la guerra civile
Ma, già all’indomani dell’Ottobre la polizia politica bolscevica (che evidentemente non conosceva Kant) non si faceva scrupolo di minacciare di morte dei quattordicenni sparandogli vicino alla testa per costringerli a confessare. E Lenin nel marzo 1918, ritenendo che gli imperativi kantiani non sarebbero stati sufficienti per convincere i contadini a cedere il grano necessario per alimentare le città e l’Armata rossa, proponeva di fucilare quei contadini che si rifiutavano, nei termini prescritti e dietro solo una ricevuta, di consegnare il grano richiesto. E nel febbraio del 1922 una commissione governativa così raccontava le modalità di esazione forzata del grano ai contadini:
«Le violenze degli ammassatori raggiungono nel governatorato dimensioni assolutamente incredibili. Ovunque i contadini arrestati vengono rinchiusi in granai gelidi, frustati e minacciati di fucilazione. I contadini che temono la repressione, abbandonano le fattorie e si rifugiano nei boschi. La 150° compagnia e il 3° reparto di requisizione hanno ordinato agli abitanti di alcuni villaggi di riunirsi in assemblea generale. Quelli che hanno obbedito sono stati attaccati dalla cavalleria e presi a colpi di frusta e sciabola sfoderata. Quelli che non avevano soddisfatto in pieno gli obblighi di consegna, sono stati inseguiti per le vie del villaggio e fatti calpestare dai cavalli, dopodiché sono stati denudati e rinchiusi in granai privi di riscaldamento. Molte donne sono state picchiate fino a far perdere loro coscienza, seppellite nude nella neve, violentate…» (cit. in Andrea Graziosi 2006: 43)
Gramsci, dal maggio 1922 al novembre 1923 a Mosca, avrebbe potuto rendersi direttamente conto di come in effetti erano trattati i criminali nel nuovo stato comunista, sia osservando la realtà circostante, sia leggendo scritti come ad esempio quello di Dzeržinskij:
«La repubblica non può essere misericordiosa con i criminali, né può sprecare risorse per loro; essi debbono coprire i costi associati alla loro cura con il loro lavoro, e debbono essere usati per colonizzare aree da sviluppare nel bacino della Pecora ecc. Dovremo darci da fare per organizzare il lavoro forzato in campi destinati a questa colonizzazione, che andranno diretti con una disciplina di ferro» (cit. in Graziosi 2007: 180-181).
Vale anche la pena precisare che per criminali il potere bolscevico intendeva oltre che gli autori di reati comuni, atti di banditismo, furto, rapina anche gli attivisti dei partiti esistenti prima del 1917, socialisti compresi, i membri di associazioni monarchiche, delle unioni contadine, di associazioni giovanili come gli scout, i religiosi di ogni confessione, gli ex mercanti e imprenditori, gli ex latifondisti e proprietari terrieri, gli stranieri di ogni nazionalità, le persone con parenti all’estero, gli scienziati e gli specialisti della vecchia scuola. Nel 1924 furono condannate in Urss quasi due milioni di persone, 2500 delle quali furono messe a morte.
2. Basta avere la volontà
Naturalmente, l’entusiasmo di Gramsci per la rivoluzione di febbraio, ancora democratico-liberale, verrà alimentato e consolidato dalla rivoluzione d’ottobre, diventata «rivoluzione bolscevica» e «rivoluzione contro Il Capitale di Carlo Marx … in Russia il libro dei borghesi più che dei proletari». Un movimento che, liberando il marxismo dalle incrostazioni positivistiche e naturalistiche, individuava il massimo fattore di storia non nei fatti economici bruti, ma negli uomini associati i quali
«comprendono i fatti economici e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace […] I rivoluzionari creeranno essi stessi le condizioni necessarie per la realizzazione completa e piena del loro ideale» (La rivoluzione contro “Il Capitale”, «Il Grido del Popolo», dicembre 1917).
Contadini russi negli anni Venti
Gramsci, già nel 1917, coglieva così un elemento caratterizzante la rivoluzione bolscevica e l’ideologia che la alimentava: la valutazione, o la sopravvalutazione, della volontà e della soggettività umana di contro ai condizionamenti dell’economia e della storia. In un paese arretrato e mancante delle basi economiche per una rivoluzione proletaria, quale la teoria marxista aveva fino a quel momento immaginata, sarebbe stato il partito rivoluzionario e lo stato da esso creato a costruire la struttura economica portante.
Insomma, mentre la società borghese e capitalistica si era progressivamente sviluppata dentro i precedenti modi di produzione per tradursi poi in nuove strutture statali e politiche, in Russia sarebbero state le nuove strutture statali e politiche, la dittatura del proletariato, a promuovere lo sviluppo economico che avrebbe poi consentito il passaggio al socialismo e al comunismo.
Nel 1927 Pjatakov, dirigente bolscevico, che esprimeva una posizione di fatto ufficiale, richiamandosi all’autorità di Lenin affermava che: «la rivoluzione socialista non ha bisogno di presupposti materiali […] Il fattore chiave, che determina tutto è la volontà creatrice in grado di fare miracoli […] Poi si penserà a costruire i presupposti materiali (cit. in Graziosi 2006: 46). E l’economista Stanislav Strumilin affermava che «il compito dei bolscevichi era trasformare l’economia, non studiarla. Non ci sono fortezze che i bolscevichi non possono assaltare… la questione del ritmo dipende dalla volontà umana» (cit. in Werth 2000: 254).
Sulla base di queste premesse, Stalin, subito dopo il 1927, comanderà la costruzione di quei presupposti materiali che avrebbero dovuto produrre una Grande Svolta in direzione del socialismo anche in un solo paese, per il tramite della pianificazione, dell’industrializzazione accelerata, della collettivizzazione forzata, della liquidazione dei kulaki. Sarà in effetti una svolta in direzione di un rincrudirsi della dittatura personale di Stalin e di un incrudelirsi della repressione che porterà alla morte per fame milioni di Ucraini, Kazaki, Russi, Bielorussi, Tedeschi del Volga.
Andrea Graziosi ha caratterizzato il bolscevismo e le idee staliniane sulla svolta come: «una ideologia soggettivista di inizio Novecento, molto più simile alle ideologie soggettiviste di destra che non al socialismo ottocentesco nella sua vulgata socialdemocratica» (Graziosi 2010: 183).
La consonanza tra la caratterizzazione di Gramsci del bolscevismo nel dicembre del 1917 e l’autorappresentazione dei bolscevichi nel 1927 è impressionante; Gramsci aveva immediatamente colto la dimensione soggettivistica e volontaristica della rivoluzione d’Ottobre, che accantonava i vincoli socioeconomici come ininfluenti, senza però avvertirne, neppure in seguito, i pericoli e le derive interne che avrebbero portato, una tappa dopo l’altra e in sostanziale continuità, dal comunismo di guerra alla estrema forzatura sanguinaria perpetrata da Stalin.
3. I bolscevichi sono in minoranza, ma diventeranno maggioranza
Le elezioni per l’Assemblea costituente (per la convocazione della quale, «entro il termine fissato senza ulteriori rinvii», Lenin ancora a settembre si era pubblicamente battuto), svoltesi nella maggior parte del paese dal 12 al 14 novembre 1917, portarono al voto 41 milioni di cittadini dei quali il 24% votò per i bolscevichi e il 40% per i socialisti rivoluzionari, così i primi ebbero 175 seggi su poco più di 700, mentre i secondi ne guadagnarono 400. «Il paese e le campagne confermavano quindi la loro scelta socialista, che però era una scelta socialista diversa da quella bolscevica» (Graziosi 2007: 96). I bolscevichi dunque risultavano minoranza nel paese e nell’assemblea eletta; avevano però il controllo della forza e il 6 gennaio 1918 non esitarono farne uso appropriato sciogliendo d’autorità il primo e ultimo parlamento liberamente eletto della storia sovietica.
Il 26 gennaio 1918, in un articolo sul «Grido del Popolo» intitolato Costituente e Soviety, Gramsci esprimeva risolutamente la sua adesione a tale chiusura con la forza dell’assemblea eletta, perché «parlamento di tipo occidentale, eletto secondo i sistemi delle democrazie occidentali», mentre i bolscevichi difendevano, giustamente, i soviet «primo modello di rappresentanza diretta dei produttori». Inoltre, chiarisce ancora Gramsci, l’atto di forza dei bolscevichi non deve essere scambiato per un gesto di violenza giacobina, perché:
«Il giacobinismo è un fenomeno tutto borghese, di minoranze tali anche potenzialmente. Una minoranza che è sicura di diventare maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini, non può essere giacobina, non può avere come programma la dittatura perpetua. Essa esercita provvisoriamente la dittatura per permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità, e di instaurare il suo ordine all’infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità. Lo scioglimento della Costituente è per noi dunque un episodio di libertà…» (A. Gramsci, Costituente e Soviety, «Il Grido del Popolo», 26 gennaio 1918).
I bolscevichi dunque, secondo il paradossale argomentare di Gramsci, sono una minoranza, ma l’abbattimento della maggioranza attuale è giustificato dal fatto che sono sicuri di diventare maggioranza futura.
Vale anche la pena osservare che, eliminato, perché democratico-occidentale, il criterio elettivo generale sperimentato in occasione della consultazione per l’Assemblea costituente, Gramsci non indicava alcun altro criterio alternativo di verifica dal quale un partito potesse derivare la legittimità di essere diventato maggioranza e, addirittura, maggioranza assoluta.
In effetti, nel giro di alcuni mesi Gramsci si era davvero allontanato dalle posizioni espresse nell’articolo del 29 aprile, dove esaltava «la rivoluzione russa [che] ha distrutto l’autoritarismo e gli ha sostituito il suffragio universale»; ora il suffragio universale è solo un modo di essere delle democrazie occidentali superato dal sistema sovietico dove il partito al potere non si (ri)mette mai in gioco diffidando, in realtà, del voto e del suffragio popolare.
Nell’articolo del 1° dicembre 1917 Gramsci confidava nel fatto che i bolscevichi stessero «elaborando le forme socialiste in cui la rivoluzione dovrà finalmente adagiarsi, per continuare a svilupparsi armonicamente, senza troppo grandi urti, partendo dalle grandi conquiste realizzate oramai».
4. Previsioni senza futuro
Le convinzioni di Gramsci che i soviet avrebbero ricoperto un ruolo centrale nel nuovo stato, superando i limiti della democrazia parlamentare, che i bolscevichi sarebbero diventati maggioranza, che la rivoluzione si sarebbe sviluppata armonicamente e senza grandi urti, si sarebbero presto rivelate pie illusioni prive di fondamento reale.
Tutto il potere ai soviet? I soviet furono in realtà più un miraggio e un momento della propaganda bolscevica che reali organismi di amministrazione e di governo dal basso. È vero che il 26 ottobre Lenin aveva dichiarato che il nuovo stato sarebbe stato fondato sul principio del «controllo operaio», ma ben presto i capi bolscevichi si resero conto del marasma che tale disordinato controllo stava provocando in settori produttivi vitali, per cui venne chiarito che «i comitati di fabbrica e la commissione di controllo sindacale … dovevano sottomettersi alle istruzioni provenienti dal Consiglio nazionale del controllo operaio»; in effetti, poi, tale consiglio venne di fatto esautorato dal Consiglio superiore dell’Economia nazionale, incaricato di «sovraintendere all’attività economica della nazione, di centralizzare e dirigere il lavoro di tutti gli organi economici», e in quanto tale in grado di confiscare, acquistare, porre sotto sequestro qualsiasi impresa. «Al controllo operaio, esercitato molto imperfettamente in alcune imprese si sostituì il controllo dello Stato, detto operaio, sugli operai “incapaci di organizzarsi”» (Werth 2000: 150).
I soviet furono esautorati non solo da organismi centrali ma anche da altri organismi temporanei, assemblati per incarichi particolari, come ad esempio le requisizioni forzate dei cereali nel 1918-20 e la collettivizzazione dei primi anni Trenta, attribuiti dal governo alle troike speciali, ai plenipotenziari, a bande di operai e di attivisti di provata fede bolscevica fatti venire apposta dalle città.
Maggioranza? I bolscevichi, una minoranza, erano però ben organizzati, estremamente determinati e guidati da un leader dalle capacità straordinarie come Lenin. Quando conquistarono il potere per via insurrezionale contro la volontà delle altre forze rivoluzionarie, menscevichi e i socialisti rivoluzionari in particolare, erano ben consapevoli di essere una minoranza, ma ritenevano che tale caratteristica, lungi dall’essere un difetto, fosse un vantaggio che poteva assicurare il successo della rivoluzione non solo per la fase democratico-borghese, ma anche e soprattutto per indirizzarla su un percorso socialista. Comprensibile dunque che rifiutassero ogni compromesso con gli altri partiti.
Menscevichi e socialisti rivoluzionari chiesero che il nuovo governo dopo l’ottobre non fosse formato solo dai bolscevichi che avevano fatto il colpo di Stato, ma che fosse rappresentativo di tutte le forze che da febbraio avevano fatto e sostenuto la rivoluzione. Il sindacato dei ferrovieri indisse uno sciopero per sollecitare i bolscevichi a trattare ed allearsi con altre forze socialiste, ma Lenin fu irremovibile: nessuna trattativa, nessuna alleanza. Trockij riassunse la posizione bolscevica a questo modo: «A coloro che ci propongono negoziati, noi dobbiamo dire: siete un pugno di miserabili e di falliti, il vostro ruolo è finito, andate dov’è il vostro posto: nella spazzatura della storia» (cit. in Cinnella 2004: 122).
Così la sera del 26 ottobre, in occasione del congresso panrusso dei soviet venne costituito un governo rivoluzionario – Il Consiglio dei commissari del popolo (Sovnarkom) – formato solo da bolscevichi e presieduto da Lenin. A margine, vale la pena ricordare che 9 membri su 17 morirono fucilati o in galera durante le purghe staliniane del 1937-38, mentre Trockij fu assassinato nel 1940 da un sicario di Stalin.
Riunione del governo bolscevico nel palazzo Smolny a Pietrogrado, dicembre 1917-gennaio 1918.
Da sinistra a destra: Isaac Steinberg, Ivan Skvortsov-Stepanov, Boris Kamkov, Vladimir Bonch-Bruyevich, VE Trutovsky, Alexander Shliapnikov, Prosh Percevich Proshyan, Vladimir Lenin, Joseph Stalin, Alexandra Kollontai, Pavel Dybenko, EK Koкsharova (secretary), Nikolai Podvoisky, Nikolai Gorbunov, V. I. Nevsky, Aleksander Shotman, Georgy Chicherin
Se i bolscevichi non rappresentavano la maggioranza delle forze politiche, ancora meno rappresentavano la maggioranza di coloro che abitavano l’ex impero zarista; tale maggioranza era costituita da contadini, l’83% del totale, che nelle elezioni per l’Assemblea costituente avevano votato per i Socialisti Rivoluzionari.
Ma, soprattutto, contro le attese di Gramsci, i bolscevichi dopo il 1917 non diventeranno mai maggioranza; non tra le forze politiche, per il semplice fatto che tutti i rappresentanti delle forze non bolsceviche furono spazzati via con la violenza, rinchiusi nelle carceri, deportati nei campi, fucilati o impiccati. E questo già al tempo di Lenin.
Armonicamente e senza urti? I bolscevichi poi non diventeranno maggioranza tra i contadini, contro i quali già dal 1918 fu dichiarata una guerra senza quartiere, per strappare loro la terra e le risorse il cui controllo avevano creduto di poter acquisire schierandosi con i bolscevichi nel 1917.
La guerra contro i contadini fu condotta con estrema violenza e determinazione dai bolscevichi e da Lenin, il quale l’11 agosto 1918 impartì ai comunisti di Penza l’ordine seguente: «L’insurrezione dei 5 circondari di kulaki deve essere schiacciata senza pietà … Bisogna dare un esempio: 1) Impiccare (impiccare per davvero, in modo che la gente veda) non meno di cento noti kulaki, ricconi, sanguisughe; 2) Pubblicare i loro nomi; 3) Portar via loro tutto il grano; 4) Prendere ostaggi, come indicato nel telegramma di ieri» (cit. in Cinnella: 319). Nel telegramma richiamato Lenin ingiungeva ai comunisti di Penza di «attuare uno spietato terrore di massa contro kulaki, popi e guardie bianche; rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori città» (cit. in Cinnella: 397).
La guerra ai contadini, già dal novembre 1917, era stata preceduta e poi accompagnata e seguita da un’altra guerra che vedeva combattersi da un lato i bolscevichi e l’Armata rossa, dall’altro una galassia di forze, movimenti, organizzazioni che mai riuscirono a trovare un coordinamento, intese comuni, obbiettivi condivisi, strategie belliche concordate.
Contro la dittatura a partito unico di Lenin, Trockij, Stalin si sollevarono infatti le residue forze zariste, gli ucraini, i cosacchi, i socialisti rivoluzionari, i menscevichi, i finlandesi, i contadini delle regioni più fertili della Russia; a queste forze si aggiunsero poi anche contingenti tedeschi, inglesi, francesi, giapponesi.
Ma la determinazione, l’organizzazione, la fede nelle proprie ragioni e in un compito che la storia sembrava aver loro assegnato consentirono ai bolscevichi di sconfiggere una dopo l’altra queste forze divise, disorganizzate, senza obbiettivi e strategie comuni e di lungo periodo. Del resto, i bolscevichi alla guerra civile si erano preparati per tempo. Già nel 1906 Lenin aveva scritto che: «Nascondere alle masse la necessità di una guerra disperata, sanguinosa, di sterminio, come compito immediato dell’azione [rivoluzionaria] futura, significa ingannare sé stessi e il popolo» (cit. in Graziosi 2006: 23). Nel 1914, sempre Lenin, a Zimmerwald, aveva lanciato la parola d’ordine “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”. Il 17 settembre 1918 in una assemblea a Pietrogrado, Grigorij Zinoviev ribadì a questo modo le intenzioni del bolscevichi: «Noi dobbiamo conquistarci novanta dei cento milioni della popolazione della Russia sovietica. Con gli altri non dobbiamo discutere, dobbiamo sterminarli». (cit. in Nolte: 68 e 583-585)
Alla fine del 1920 il governo comunista aveva vinto la guerra contro tutti gli oppositori, a parte i contadini, contro i quali, dopo la breve tregua della Nep, Stalin avrebbe ripreso la guerra fino allo sterminio, prima delle élites e poi dei milioni che rifiutavano la collettivizzazione forzata delle terre, delle risorse, degli uomini.
NB Il neretto è sempre dell’autore dell’articolo.
Fonti delle immagini
Bambini   Contadini   Governo
Bibliografia
– I tre articoli di Gramsci:
1) Note sulla rivoluzione russa, «Il Grido del Popolo», 29 aprile 1917.
2) La rivoluzione contro “Il Capitale”, «Il Grido del Popolo», 1° dicembre 1917. L’articolo venne censurato, ma uscì poi sull’«Avanti!» del 22 dicembre).
3) Costituente e Soviety, «Il Grido del Popolo», 26 gennaio 1918.
– I tre precedenti e altri articoli di Gramsci sulla rivoluzione russa sono reperibili in: Antonio Gramsci, Come alla volontà piace. Scritti sulla rivoluzione russa, a cura di G. Liguori, Castelvecchi, Roma 2017.
– Sulla Russia di cui scrive Gramsci:
Ettore Cinnella, La tragedia della rivoluzione russa, Corriere della Sera, Milano 2004.
Andrea Graziosi, L’Unione sovietica in 209 citazioni, il Mulino, Bologna 2006.
Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin e di Stalin, il Mulino, Bologna 2007.
Andrea Graziosi, Stalin e il comunismo, in AAVV, I volti del potere, Laterza, Roma-Bari 2010.
Ernst Nolte, La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo, BUR, Milano 2008.
Giorgio Petracchi (a cura di), L'Italia e la rivoluzione d'Ottobre, in «Annali della Fondazione Ugo La Malfa. Storia e politica», XXXI 2016, Unicopli, Milano 2017.
Nicolas Werth, Storia della Russia nel Novecento, il Mulino, Bologna 2000.