Nel racconto di uno storico, Jeffrey Veidlinger, e di uno scrittore, Israel Joshua Singer

Claudio Magris, nell’introduzione al romanzo di Israel Joshua Singer I fratelli Ashkenazi, ha scritto: «Per Singer il romanzo sembra essere anzitutto un’opera di storia». A riprova della validità di tale osservazione e, comunque, per un significativo confronto, riproduco qui sotto prima la ricostruzione storica del pogrom di Leopoli del 22-25 novembre 1918 di Jeffrey Veidlinger, professore di Storia e Studi giudaici alla University of Michigan, e poi la narrazione che ne ha fatto Israel Joshua Singer nel romanzo I fratelli Ashkenazi.

* Lviv per gli Ucraini, Lwow per i Polacchi, Lemberg per Austriaci e Tedeschi, Leopoli per gli Italiani. Nei testi riprodotti ho conservato i nomi delle rispettive traduzioni in italiano.

Jeffrey Veidlinger, storico

► Jeffrey Veidlinger, L’Olocausto prima di Hitler. 1918-1921 I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli Ebrei, Rizzoli-Mondadori, 2023, pp. 49-50, 90-94.

Nel luglio 1915, la Russia ormai non si era solo ritirata dai territori appena conquistati in Galizia ma aveva anche perso i possedimenti baltici e il regno di Polonia. Imbaldanziti dalla prospettiva di ridisegnare i confini nel mondo postbellico, Ucraini e Polacchi iniziarono a pianificare una futura entità statale nei medesimi territori. I nazionalisti polacchi immaginavano una repubblica che replicasse i confini storici della Confederazione polacco-lituana riunendo il regno di Polonia alla Galizia austriaca e alle province occidentali dell’impero russo che costituivano la Zona di residenza. Gli Ucraini, nel frattempo, sognavano uno Stato che comprendesse le grandi popolazioni di lingua ucraina della Galizia orientale oltre che le province sudoccidentali della Russia, inglobando gran parte della metà meridionale della Zona di residenza. I Tedeschi, da parte loro, tramavano per minare il dominio russo dall’interno: promisero agli Ucraini sostegno per l’indipendenza e inviarono segretamente fondi ai rivoluzionari che tentavano di rovesciare lo zar. I Francesi, d’altro canto, consentirono ai legionari polacchi di addestrarsi in Francia, in previsione di un eventuale Stato polacco, che avrebbe funto da baluardo contro l’espansionismo tedesco. All’interno di questa regione contesa viveva la comunità ebraica più estesa del mondo, divisa nelle sue lealtà politiche tra coloro che riponevano fiducia nell’internazionalismo bolscevico, nella democrazia costituzionale russa, nella libertà polacca, nell’autonomia ucraina, nella cultura tedesca, nella tolleranza austriaca, nella libertà francese, nella sovranità sionista e nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.

Principali pogrom in Ucraina 1918-1921

Principali pogrom in Ucraina 1918-1921
(Veidlinger, p. 12)

Capitale della Galizia austriaca, Lviv era stata trasformata dal boom petrolifero della fine del secolo, passando da provinciale centro amministrativo a crocevia metropolitano; i grandiosi edifici governativi neoclassici «giallo asburgico» attorno alla piazza rinascimentale del mercato e tra le chiese barocche riflettevano la crescente importanza politica della città. Con i suoi ampi viali e l’impeccabile e moderno centro urbano, Lviv era spesso paragonata a Vienna. Anche la popolazione aveva finito per apprezzare l’ordine asburgico. Più organizzati delle loro controparti a Kiev e sostenuti da disciplinati soldati di formazione austriaca, gli Ucraini della Galizia erano convinti che un governo a Lviv sarebbe riuscito a difendere la sovranità ucraina laddove la Rada centrale [Assemblea della Repubblica Popolare Ucraina creata nel novembre 1918] e l’Etmanato [Governo che prese il posto della Rada a fine aprile 1918] avevano fallito.

Ma Lviv figurava anche nei sogni di indipendenza polacchi. Quando, nel suo epocale discorso in «Quattordici punti» tenuto al Congresso nel gennaio 1918, il presidente Wilson aveva dichiarato che uno Stato polacco indipendente rientrava nel suo piano per una pace duratura, aveva suggerito di includere «i territori abitati da popolazioni indiscutibilmente polacche». Lviv era adatta a tale scopo: malgrado circondata da una campagna per lo più ucraina, la popolazione di duecentomila abitanti era per metà polacca, con un ventotto per cento di ebrei e un tredici per cento di ucraini. Per Józef Piłsudski, l’eroe militare e capo della neonata repubblica polacca, Lviv era il fulcro dello Stato multinazionale che immaginava entro i confini storici della Confederazione polacco-lituana.

La minoranza ucraina, tuttavia, fece la prima mossa, proclamando la fondazione della Repubblica popolare dell’Ucraina occidentale il primo novembre. I soldati ucraini che avevano fatto parte della guarnigione austriaca in città issarono la bandiera gialla e azzurra sulla torre del municipio alta ottanta metri e occuparono la stazione ferroviaria e importanti edifici governativi. Il giorno seguente, mentre migliaia di ucraini festeggiavano all’esterno della cattedrale di san Giorgio, il consiglio comunale dichiarò invece la propria alleanza con la Polonia. «Quando abbiamo scorto la bandiera ucraina sul palazzo municipale, un senso di incredulità ci ha sconvolti nel profondo. Come osano!» ricordò Janina Chomówna, una residente polacca.

Gli Ucraini presero il controllo della Ringplatz al centro della città ma, nel giro di pochi giorni, i quartieri polacchi a ovest, nei pressi della stazione, caddero in mano a gruppi di nazionalisti polacchi o, come li definì un rapporto investigativo congiunto americano e britannico, «alcune centinaia di ragazzi polacchi uniti a numerosi volontari di dubbia natura». Gli scontri tra ex soldati austriaci di nazionalità polacca e ucraina nel corso delle tre settimane successive fecero quasi duecento morti. Molti dei «volontari di dubbia natura» (criminali rilasciati dalle prigioni e soldati disertori) razziarono il centro cittadino, dove devastarono i negozi di proprietà di Ebrei. Una brigata di autodifesa composta da soldati ebrei che avevano servito nell’esercito austriaco reagì con la forza. Sebbene i leader della comunità ebraica avessero pubblicamente dichiarato la propria neutralità nella disputa tra le rivendicazioni ucraine e polacche sulla città, molti Polacchi videro nel ricorso alle armi da parte della brigata ebraica un appoggio alla fazione ucraina. Fu un’impressione corroborata dai bollettini ucraini che celebravano come un alleato la brigata ebraica e descrivevano in maniera fuorviante la posizione ufficiale ebraica come pro ucraina.

Il 22 novembre, da Cracovia giunsero rinforzi polacchi che respinsero i soldati ucraini e attaccarono i civili ebrei con una barbarie che indignò il mondo. Lo scrittore ebreo britannico Israel Cohen descrisse la scena in un rapporto che stilò in qualità di commissario speciale dell’organizzazione sionista mondiale.

Il primo atto delle truppe polacche è stato disarmare la milizia ebraica, ufficiali e uomini, e incarcerarli. Poi, un cordone militare è stato allestito attorno al quartiere ebraico, mitragliatrici installate all’inizio di ciascuna strada e si è dato inizio a un saccheggio sistematico. Un negozio dopo l’altro è stato aperto con la forza, gli scuri di ferro distrutti con l’uso di pistole o bombe a mano e le finestre mandate in frantumi. Sono stati depredati solo i negozi ebraici: i locali di polacchi e ucraini sono stati risparmiati. Anche le abitazioni private sono state razziate da bande armate di civili e soldati, spesso guidate da ufficiali. Coloro che opponevano resistenza sono stati brutalmente aggrediti o fucilati e molte donne e ragazze sono state oltraggiate.

Secondo un altro testimone, «le donne dovevano spogliarsi e restare nude, per la gioia della rozza folla. Mogli di avvocati venivano trattate come sgualdrine, assistenti universitarie volgarmente insudiciate, la loro dignità di donne calpestata senza vergogna». Più tardi, quello stesso giorno, nei quartieri ebraici giunsero auto polacche cariche di petrolio e benzina. I soldati polacchi innaffiarono le case e appiccarono il fuoco mentre i pompieri assistevano con le mani in mano. Si vedevano persone che correvano in mezzo al fumo, portando cappotti di pelliccia e altri oggetti di valore rubati dalle abitazioni in fiamme. «Ho notato che tutti stavamo guardando le case ebree bruciare con piacere e risate» ha ricordato un testimone.

I soldati si dedicarono poi alle sinagoghe, facendo a pezzi rotoli della Torah, distruggendo oggetti antichi custoditi nei seminterrati, dando alle fiamme gli edifici del culto e uccidendo diversi ebrei che vi si erano barricati dentro. Ebrei furono presi di mira con l’accusa di aver sparato ai soldati polacchi, importato il bolscevismo, nascosto armi, speculato sulla valuta e sullo zucchero e sfruttato in genere Polacchi innocenti. «Voi Ebrei avete rubato abbastanza, adesso è tempo che vi saccheggino» riferì una vittima, riportando le parole di un comandante militare. I soldati polacchi fermavano perfino i becchini diretti al cimitero, aprendo le bare alla ricerca di armi o bottino. Le violenze continuarono per tre giorni, durante i quali settantatré ebrei furono confermati morti e quattrocentoquarantatré feriti, sebbene fosse stato segnalato il ritrovamento di altri centootto corpi in una fossa comune. Si diceva che decine di adolescenti fossero ricoverate in ospedale per via del «brutale trattamento da parte di vandali polacchi». Il 25 novembre, il giorno dopo la fine del pogrom, il consiglio comunale si riunì per celebrare il ritorno di Lviv sotto il dominio polacco e i membri si alzarono in piedi per dedicare un lungo applauso all’«eroismo dei nostri giovani» che avevano combattuto per la Polonia.

A parte qualche esempio poco noto di atrocità bolsceviche nel cuore della zona di guerra, gli osservatori ebrei non trovarono precedenti a una violenza tanto distruttiva e organizzata. A differenza delle altre ondate di pogrom di cui erano a conoscenza, quello di Lviv era stato istigato da soldati in servizio e non da bande girovaghe di criminali né dal malcontento locale. I soldati avevano di proposito preso di mira gli Ebrei nelle loro case e nei luoghi di lavoro senza alcun apparente obiettivo militare. A essi si erano uniti comuni cittadini, che avevano approfittato della situazione per depredare i vicini ebrei. L’intero episodio era stato caratterizzato da dimostrazioni di forza, spesso manifestatesi attraverso l’umiliazione sessuale e lo stupro.

Molti temevano che preannunciasse un nuovo tipo di pogrom. II numero di vittime a Lviv, osservavano, era di gran lunga maggiore rispetto agli episodi precedenti; perfino in mezzo alla brutalità della Grande Guerra, massacri mirati di quella portata erano inauditi. Allo shock si aggiungeva il fatto che il massacro aveva avuto luogo non durante le tre settimane di scontri tra le forze polacche e ucraine per il controllo di Lviv, bensì dopo che i soldati polacchi si erano impossessati della città. Gli Ebrei assassinati non erano vittime collaterali di una battaglia; erano stati uccisi in maniera deliberata da soldati organizzati, incoraggiati da una popolazione solidale che comprendeva non solo facinorosi antisemiti ma anche membri dell’alta società; «donne in pelliccia e guanti» per citare un testimone. La partecipazione dei loro vicini distrusse il senso di sicurezza che gli Ebrei avevano provato in città. Gli umiliati superstiti erano stati disumanizzati dal dileggio, dalle scene carnevalesche, che impressero nella mente degli astanti l’immagine degli Ebrei come creature prive di dignità umana.

II pogrom di Lviv fu accompagnato da una serie di sommosse e razzie antisemite in altre centotrenta località di Galizia e Polonia, mentre residenti e soldati celebravano l’indipendenza polacca saccheggiando i negozi e le abitazioni degli ebrei e assalendo i civili. Nella Galizia orientale, gli Ebrei furono presi di mira con la falsa accusa di aver parteggiato per gli Ucraini, inducendo le autorità militari polacche a disarmare con la forza le milizie ebraiche e le brigate di autodifesa. Ma perfino a Varsavia, dove gli Ebrei nutrivano ben poca simpatia per il nazionalismo ucraino, Cohen descrisse come i soldati «compivano ripetute razzie nelle case e i negozi del quartiere ebraico con il pretesto di cercare armi e “requisivano” denaro, oggetti di valore e tutto ciò che fosse utile». Sebbene gran parte della violenza al di fuori di Lviv si limitasse a saccheggi, profanazione di cimiteri, incendi dolosi e piccole aggressioni, si registrarono cinquantanove vittime.

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Israel Joshua Singer, scrittore

► Israel Joshua Singer, I fratelli Ashkenazi, Bollati Boringhieri, Torino 2022, pp. 678-683. (Pubblicato per la prima volta in yiddish nel 1934).

Il mondo non sarebbe tornato com’era prima; la guerra e la violenza non sarebbero cessate. Scoppiarono altre guerre più piccole, conseguenze di antiche inimicizie, tra i Polacchi e i Ruteni [Ucraini], tra i nobili polacchi e i contadini. Ogni piccolo gruppo avanzava pretese sul potere. O adesso, o mai, si dicevano. E gli Ebrei erano presi in mezzo tra le parti contendenti; da qualunque parte provenissero, le pallottole attraversavano le vie e le case degli Ebrei; ciascuna delle parti contendenti esigeva l’aiuto degli Ebrei e li accusava di tradimento se si rifiutavano di farsi coinvolgere in quei contrasti.

La più accanita di queste guerre secondarie fu combattuta a Leopoli. La città era tenuta da due eserciti rivali, l’esercito polacco e quello ucraino; ciascuno occupava la propria zona e sparava contro l’altro attraverso lo spazio che li divideva, occupato dagli Ebrei.

Giovani soldati e ufficiali ebrei dell’ex esercito austriaco organizzarono una difesa ebraica, per respingere i rapinatori e gli assassini che avevano cominciato a compiere scorribande anche in pieno giorno. Gli Ebrei si proclamarono neutrali tra i Polacchi e gli Ucraini, sperando in tal modo di placare il vincitore finale. Ma i Polacchi presero questa dichiarazione di neutralità come un’offesa; e benché il comando polacco l’approvasse e firmasse un accordo ufficiale con il corpo difensivo ebraico, fra le truppe si diffuse una violenta avversione contro gli Ebrei, che venivano denunciati come nemici della Polonia.

I militari polacchi di bassa forza minacciavano gli Ebrei apertamente. «Aspettate e vedrete!» gridavano. «Quando avremo buttato fuori gli Ucraini, v’insegneremo noi, a essere neutrali!»

E non mancarono di farlo. Quando gli Ucraini si furono ritirati da Leopoli, le truppe polacche organizzarono un attacco al quartiere ebraico, esattamente come se fosse stata una fortezza nemica, anziché una zona inerme di una città conquistata. E al seguito delle truppe venne una folla avida di saccheggio, impiegati e infermiere, ladri e prostitute, prelati, monaci e massaie, un’accozzaglia disparata che invase le strade ebraiche. «Abbasso gli Ebrei!» urlavano. «Impiccateli per la barba!»

Gli ufficiali marciavano apertamente alla testa delle loro truppe, un ufficiale ogni dieci soldati. Circondarono il comando del corpo di difesa ebraico, lo disarmarono; fucilarono i capi e arrestarono tutti gli uomini.

E poi cominciò la carneficina e il saccheggio.

L’attacco fu iniziato con la precisione di una battaglia. Alle sette in punto di una fredda mattina di novembre, i legionari polacchi circondarono piazza Cracovia con le mitragliatrici e le autoblindo. Gli sbocchi di via Sinagoga, via Shulkev, via Ognon, e di altre vie furono bloccati, in modo che nessuno potesse uscire, quindi fu dato l’ordine di aprire il fuoco.

Le pallottole delle mitragliatrici e dei fucili cominciarono a scheggiare i muri e a fracassare le finestre; avanzando lentamente, i legionari polacchi lanciavano bombe a mano contro le case e contro le porte sbarrate. Grida di terrore si levavano dall’interno delle case; e alcuni si slanciarono all’aperto e furono immediatamente abbattuti. Levando grida di trionfo, i soldati continuavano a gettare le bombe.

Quando la popolazione fu tutta quanta atterrita, quando ebbe avuto larghi esempi di ciò che doveva aspettarsi in caso di resistenza, gli ufficiali diedero l’ordine di cessare il fuoco e inviarono pattuglie nelle case. Gli ordini venivano emanati dal Teatro Comunale, dove l'alto comando aveva posto la sua sede. Le pattuglie avanzarono di casa in casa, sfondavano le porte, penetravano nell’interno e gettavano in strada tutto ciò che contenevano. Nelle case più ricche, agli abitanti veniva ordinato di mettersi contro il muro a mani in alto, mentre gli ufficiali li frugavano in cerca di denaro, gioielli o altri oggetti di valore. Qua e là, i soldati non si accontentavano di saccheggiare: la vista di qualche bella donna accendeva le loro voglie; mariti, fratelli, figli venivano legati e in loro presenza le donne venivano violentate dalla soldataglia. E come se ciò non bastasse, soldati e ufficiali furono assaliti da un’insana sete di sangue; vi furono bambini pugnalati nelle loro culle in presenza della madre, uomini abbattuti col calcio del fucile, donne sbudellate a colpi di baionetta.

Fuori, per le strade, una folla impazzita chiedeva a gran voce ancora sangue, ancora bottino. Alle porte del quartiere stavano fermi autocarri militari sui quali i soldati ebbri e sudati caricavano le masserizie saccheggiate, che venivano quindi trasportate nei punti di raccolta. Qui, la popolazione civile lottava furiosamente per la divisione del bottino. Popolane in scialle, signore eleganti in pelliccia, ragazze di strada, infermiere, monache, maestre, tutte spingevano e urlavano per ottenere la loro parte.

«Datela a me, capitano!» «No, a me! La voglio io, quella!» urlavano.

I ricchi venivano con la carrozza, per poter prendere più roba.

I negozi ebraici furono vuotati di tutti i capi di vestiario, delle provviste alimentari, di ogni genere di mercanzia. Dalle porte del quartiere ebraico usciva una interminabile colonna di autocarri carichi, incrociandosi con una di autocarri vuoti che vi entrava. Il secondo giorno, quando il saccheggio fu terminato, l’alto comando diede l’ordine di appiccare il fuoco al quartiere ebraico. Ora gli autocarri portarono fusti di benzina presi dai negozi ebraici il giorno prima. I muri delle case ebraiche ne furono cosparsi; materassi, coperte, sacchi di paglia inzuppati di benzina furono ammucchiati contro le porte, in modo che nessuno potesse fuggire. Quindi vi furono accostate le torce.

Dall’interno delle case ebraiche si levarono grida di terrore: «Friggete nel vostro grasso!» urlarono i soldati e gli ufficiali.

Dalle case, i legionari polacchi si volsero alle sinagoghe e alle case di studio. Quattro ufficiali, ciascuno al comando di una squadra di dieci uomini, penetrarono nella sinagoga di Forshtetter. Strapparono la tendina dinanzi alla sacra Arca, aprirono lo sportello e s’impadronirono di tutti gli oggetti preziosi che conteneva; presero le corone d’argento, i manici dei rotoli, i calici e i candelabri. Cacciarono tutte queste cose in un sacco insieme coi parati di seta e di velluto dei giorni festivi. I rotoli spogli furono gettati a terra, calpestati, e insudiciati. Quando l’interno della sinagoga fu interamente devastato, i soldati lanciarono diverse bombe a mano, nell’Arca spogliata, quindi appiccarono il fuoco all’antico edificio.

Due ragazzini di tredici anni che abitavano in via Sinagoga, David Reubenfeld e Israel Feigenbaum, entrarono di corsa nella sinagoga in fiamme e raccolsero i rotoli della Legge che giacevano sul pavimento. Con quei sacri oggetti tra le braccia corsero fuori, ma sulla porta della sinagoga furono abbattuti a fucilate dai legionari polacchi.

Un destino analogo ebbero le altre sinagoghe e case di studio del quartiere. Gli ufficiali portarono via tutti gli oggetti d’argento dal tempio di via Shulkev. Alcuni, non contenti del saccheggio, con ebbra frenesia, diedero libero sfogo al loro odio e al loro disprezzo per la religione ebraica. Strapparono le coperture dell’Arca, se le avvolsero sulla testa come turbanti, e si misero a danzare lì attorno, a dondolarsi in avanti e indietro parodiando gli Ebrei in preghiera, tra le risate e i lazzi della soldataglia. Quando si furono divertiti abbastanza, gli ufficiali ordinarono di schiodare il pavimento, versare benzina nelle fondamenta, e appiccare il fuoco a tutto quanto.

In un’altra casa di preghiera in via Sinagoga, alcuni Ebrei si avvolsero nei sudari, si coprirono il capo con gli scialli di preghiera e si misero a recitare le preghiere dei moribondi battendosi il petto. Le porte vennero chiuse e sbarrate dall’esterno, e fu appiccato il fuoco all’edificio. Gli Ebrei continuarono a pregare finché le fiamme raggiunsero gli scialli di preghiera. Un ufficiale, vedendo lo spettacolo dalla finestra ne fu inorridito. Aprì una porta laterale e gridò agli Ebrei di uscire. Ma nel fracasso, nei gemiti, nella confusione non fu udito, e gli Ebrei perirono tra le fiamme.

Il saccheggio e la distruzione del quartiere ebraico durarono tre giorni e tre notti. I soldati assassinarono e devastarono; le case e le sinagoghe furono distrutte dalle fiamme; i pompieri della città non si mossero dalle caserme.

Il quarto giorno gli Ebrei atterriti, fiaccati dalla catastrofe, strisciarono fuori dalle macerie e cominciarono a cercare i loro morti. I cadaveri carbonizzati furono avvolti in scialli di preghiera, i resti non identificati furono messi entro giare, per potergli dare decorosa sepoltura. Dalle rovine ancora fumanti, frammenti di arredi sacri e pezzi di pergamena che un tempo erano stati rotoli della Legge, furono messi dentro altre giare di terracotta per poter essere seppelliti anch’essi. Settantadue morti furono allineati sotto gli scialli di preghiera, e tra di essi uomini singhiozzanti e donne urlanti cercavano i loro cari.

Tutti gli Ebrei della città si adunarono per il funerale collettivo dei martiri e dei rotoli profanati e distrutti. Tra le migliaia di uomini e donne in lutto spiccava una figura in uniforme azzurro-chiaro: era Felix Feldblum, ufficiale della Legione polacca, combattente per la libertà della Polonia e già credente nel suo messianico avvenire.