Una lettera ritrovata

di Adriano Vargiu

La grande guerra, quella dei «tutti giovani sui vent’anni / la sua vita non torna più», nei versi della canzone Monte Nero. Quella – per dirla con Ernest Hemingway di Addio alle armi – combattuta «dalla più bella gente che c’è, o diciamo pure soltanto dalla gente, per quanto, quanto più ci si avvicina a dove si combatte e tanto più bella è la gente che si incontra; ma sono fatte – le guerre – provocate e iniziate da precise rivalità economiche e da maiali che sorgono a profittarne. Sono persuaso che tutta la gente che sorge a profittare della guerra e aiuta a provocarla dovrebbe essere fucilata il giorno stesso che incominciano a farlo da rappresentati accreditati dei leali cittadini che la combatteranno. L’autore di questo libro sarebbe molto lieto di incaricarsi di questa fucilazione, se fosse legalmente delegato da coloro che combatteranno, e di badare a che venga eseguita con tutta l’umanità e la correttezza possibile e badare che a tutti i corpi venga data degna sepoltura. Potremmo perfino riuscire a farli seppellire nel cellofan o in qualcuno dei più moderni materiali plastici».

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Quella dei tribunali militari italiani che nel corso della guerra pronunciarono oltre quattromila sentenze, di cui settecentocinquanta eseguite: «sono morti – scrivono E. Forcella e A. Monticone nel loro libro Plotone d’esecuzione – che si vanno ad aggiungere ai soldati abbattuti direttamente dai loro ufficiali o da plotoni di esecuzione improvvisati, senza processo. Muoiono perché si rifiutano di morire».

E naturalmente quella degli intrepidi brigati sardi della Brigata Sassari, come li definì Leonardo Motzo (allora non si chiamavano sassarini, ma fanti!). Emilio Lussu alla Camera il 24 maggio 1922: «Non per un palmo di più lontana frontiera abbiamo gettato al vento la nostra giovinezza, ma per un alto ideale di libertà e di giustizia».

Silvio Podda, uno dei tanti fanti della Brigata Sassari, cagliaritano, «aiutante riparatore di macchine agricole». A guerra finita – lui la guerra l’aveva fatta tutta – tornò a casa stramaledicendo i guerrafondai, con la convinzione che il dopoguerra sarebbe stato peggiore. Tornò modesto, senza allori, nella sua città, a pretendere, da uomo, i propri diritti.

Da Roma, in attesa del congedo, scrive ai suoi, la trincea ormai è un doloroso ricordo. La carta a righe gliel’ha fornita il Ministero della Guerra, con stampato: «Soldato – osservando la disciplina – facendo il tuo dovere – sopportando sacrifici – conservando la fede – hai raggiunto la vittoria. – Se continuerai a essere – un buon cittadino – come fosti sempre – un buon soldato – la tua vita – sarà – nobile e felice».

Roma, 27 agosto 1919
Carissimi,
finalmente è per scoccare la tanto attesa ora del congedo della mia classe. Il 5 del mese entrante si comincia l’invio e partiranno i primi diretti alla provincia di Cagliari, io partirò verso il 14 o il 15 e così sarò a casa per il 20, e questa volta per sempre, speriamo.
Allora sarò libero di esternare le mie idee senza che nessuno mi metta la museruola e che sia forzato a pensare col cervello degli altri, per anni ho subito sulla volontà mia le pastoie della disciplina, contro voglia mi son dovuto inchinare e rassegnare facendo buon viso all’avversa fortuna. Ma ormai la misura era colma e trepidavo per me stesso, che uno scatto inconsueto in un momento di rabbia facesse finire male l’onorata carriera di combattente, sebbene non eroico; posso dire a me stesso, coscienzioso, ciò che ho potuto fare fisicamente e moralmente l’ho fatto, ma adesso non ne potevo più, e appena saputo del mio congedo ho cambiato umore, sono ridiventato allegro, per modo di dire, e sto contando i giorni che ancora ho da fare sotto la vita militare. Vita vissuta in momenti terribili, ma che a molti diede gioie ed onori, moltissimi dal nulla sono riusciti per forza del caso e dei tempi procellosi, da poco tempo trascorsi, a farsi un nome. Non li invidio neanche per sogno. Sono oscuro soldato, ho fatto semplicemente il mio dovere, e lo stesso me ne vado umile come ho vissuto per anni. Ma la libertà che mi aspetta non la cambierei per la posizione d’un generale.
Il posto m’aspetta per diritto oppure un equo compenso in denaro, e allora verrà fuori anche il dovutomi in 48 mesi e il mondo è aperto a tutti; nessuno purché abbia voglia e testa a posto non muore. Se poi arrivassi al posto di Murgia [meccanico specializzato in macchine agricole], tutto sarebbe per il meglio, apprenderei un’arte che è la mia inclinazione, e sarei pagato nello stesso tempo, e così quando potrò avverare il mio sogno d’essere piccolo proprietario del mio, avrò già pratica di macchine agricole e del bestiame, e col tempo sarà un titolo non disprezzabile, tanto più che l’agricoltura è in via di progresso. Se no, col mio piccolo peculio lavorerò nel commercio in piccolo, sì, ma vivono gli altri e potrò vivere anch’io, e se la fortuna mi arride potrò trovare l’agiatezza lo stesso.
Cercate di divertirvi il più che potete, perché il tempo trascorre presto. Vi scriverò quando dovrete sospendere la corrispondenza. Saluti cari agli zii e baci alle piccole. Saluti a Tomasicu e a Vittorina e baci alla bimba e a voi due un bacio carissimo dal vostro
Silvio.

Nella testimonianza dei discendenti, Silvio Podda divenne concessionario d’una nota fabbrica di macchine agricole.