di Tommaso Piffer**
In questa raccolta di saggi si analizza per la prima volta in modo organico il tema della Resistenza cosiddetta “autonoma” mettendo a confronto le esperienze politiche e militari di diversi contesti regionali.
Adottando una definizione ampia di “Resistenza autonoma”, nelle pagine che seguono si affrontano realtà molto diverse tra loro, dalle formazioni Osoppo sul confine orientale al primo Gruppo Divisioni Alpine in Piemonte, dalle Fiamme Verdi nel bresciano alla brigata Maiella che operò a fianco degli alleati nel Sud Italia, dai circoli della Resistenza liberale nell’Italia del nord ai volontari italiani che operarono per assistere i prigionieri Alleati in mano tedesca.
Non è agevole, a fronte di tale disomogeneità, tracciare le caratteristiche comuni alle varie esperienze per interrogarsi sul ruolo che nel loro complesso esse ebbero all’interno della storia della Resistenza italiana. Tanto più che le differenze politiche tra le formazioni erano certo rilevanti ai vertici delle stesse, mentre la gran parte dei partigiani era spesso digiuna di politica e militava in questo o quel gruppo per le ragioni più varie.
Un tratto distintivo di tutte le realtà qui analizzate e che ne giustifica la trattazione unitaria in questa sede fu sicuramente il rifiuto dei vertici delle formazioni autonome di declinare la guerra di Liberazione in un senso di rottura dell’ordine sociale, in netta opposizione quindi sia con il collettivismo di stampo sovietico, che costituiva il DNA del movimento comunista internazionale, sia con la cosiddetta rivoluzione liberale di marca azionista. Nell’esperienza degli “autonomi”, la Resistenza si configurava essenzialmente come lotta di Liberazione nazionale dall’occupante nazista, allo scopo di rimettere il Paese nelle condizioni di scegliere liberamente l’ordinamento politico del quale dotarsi alla fine del conflitto.
2. Partigiani della formazione Osoppo
Non stupisce quindi che il rapporto tra le formazioni autonome e quelle del Partito comunista e del Partito d'azione sia stato caratterizzato generalmente dalle incomprensioni e dai contrasti che a livello globale caratterizzarono la grande coalizione tra gli alleati occidentali e l’Unione Sovietica. Né può sorprendere che nel dopoguerra gran parte delle associazioni di combattenti sorte da queste esperienze siano confluite nella Federazione italiana volontari della libertà (FIVL), nata nel 1948 come reazione alla progressiva egemonizzazione dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (ANPI) da parte del Partito comunista.
L’interpretazione dell’antifascismo in senso democratico e antitotalitario che fu propria dell’esperienza degli autonomi fu alla radice di precise opzioni militari, strategiche e politiche che si ritrovano in modo trasversale in tutte le realtà qui analizzate. Uno dei motivi di conflitto più frequenti con le formazioni garibaldine, ad esempio, fu il rifiuto degli autonomi di impegnarsi in azioni che si ritorcessero a danno della popolazione civile senza un significativo vantaggio dal punto di vista militare. Peculiari furono anche il costante richiamo al patriottismo e il legame con l’esercito. Su queste opzioni, e sulla loro declinazione nei vari contesti locali, si soffermano in modo diffuso i saggi delle pagine che seguono, e non è quindi necessario approfondirle in questa sede.
La Resistenza autonoma rappresentò una componente estremamente significativa del fronte resistenziale dal punto di vista numerico, militare e politico. Formazioni come l’Osoppo, le Fiamme Verdi o il primo Gruppo Divisioni Alpine di Enrico Martini “Mauri” inquadrarono migliaia di uomini, che spesso portarono in dote l’indispensabile esperienza militare acquisita nel Regio Esercito. Fu grazie a uomini come Alfredo Pizzoni, Edgardo Sogno e Raffaele Cadorna che il CLN Alta Italia poté garantirsi la fiducia degli alleati e quindi il sostegno militare ed economico senza il quale, come ebbe a dire Ferruccio Parri, la Resistenza avrebbe dovuto praticamente “chiudere bottega”.In Italia come in tutta Europa all’interno dello scontro tra fascismo e antifascismo si sovrapposero e si intersecarono una pluralità di altri conflitti più o meno violenti, la cui posta in gioco era il volto etnico e politico del continente alla fine della Seconda guerra mondiale. In Jugoslavia lo scontro etnico tra serbi e croati si sovrappose inestricabilmente a quello tra i comunisti di Tito e i partigiani nazionalisti di Mihailovic, che vide il primo prendere il potere al termine di un sanguinosissimo conflitto interno e instaurare un regime comunista che sarebbe durato per i decenni a seguire. In Grecia la frattura tra il Partito comunista e i nazionalisti dell’EDES si sovrapponeva al conflitto sul ruolo della monarchia che divideva il Paese da decenni e causò una guerra civile che si protrasse ben oltre la fine del conflitto mondiale. In Polonia l’impossibile collaborazione tra Mosca e il governo polacco in esilio a Londra causò un violento scontro tra la resistenza filocomunista e quella fedele al governo. Questa fu poi decimata nel corso dell’insurrezione di Varsavia e lasciò il campo libero all’instaurazione di un regime fedele a Mosca. Ovunque la guerra contro il fascismo fu anche una guerra per il futuro dell’Europa.
In Italia furono le formazioni autonome a vincere la competizione politica per il dopoguerra. Finita la guerra il Paese si dotò di robuste strutture democratiche, mentre le velleità rivoluzionarie della sinistra del CLN si infransero contro la presenza degli alleati occidentali, l’opposizione di Stalin e soprattutto l’indisponibilità della maggioranza degli italiani a imbarcarsi in arditi e non meglio precisati progetti di rinnovamento sociale o “democrazie progressive”.
3. Enrico Martini 'Mauri', fondatore e comandante della formazione autonoma “1º Gruppo Divisioni Alpine”
Vittoriosa sul piano politico, la Resistenza autonoma perse però la guerra della memoria. La narrazione dell’esperienza resistenziale affermatasi fin subito dopo la fine del conflitto rimase infatti ancorata al binomio “progressisti” e “conservatori”, secondo il quale solo le formazioni politiche e partigiane che puntavano a un complessivo rinnovamento dell’assetto politico e sociale italiano ne avrebbero rappresentato l’anima autentica. Per riprendere un’espressione che Alessandro Galante Garrone utilizzò a proposito di Edgardo Sogno, le formazioni autonome, al contrario, sarebbero state intimamente estranee «al moto di rinnovamento che fu l’impronta vera della resistenza» e furono per questo espulse da una storia che avevano contributo in gran parte a scrivere. Questa lettura è sopravvissuta ben oltre la fine della guerra fredda, trovando spazio anche in volumi innovativi come il saggio Una guerra civile di Claudio Pavone o in opere di sintesi quali il Dizionario della Resistenza edito da Einaudi nel 2006.
Le associazioni che rappresentavano i reduci delle formazioni autonome, dal canto loro, si rivelarono sostanzialmente incapaci di imporre una lettura alternativa che rendesse giustizia al ruolo da loro svolto. A pesare furono in parte la frammentazione di queste realtà nel territorio nazionale, in parte la sottovalutazione compiuta dalla cultura moderata in genere dell’importanza del mondo della cultura. È certamente significativo che la principale raccolta di documentazione sulle formazioni autonome sia stata pubblicata dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, che ne affidò la cura ad autori che non si mostrarono certo simpatetici verso questa esperienza.
4. Alfredo Pizzoni, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI).
La storia prima che la storiografia si è incaricata di archiviare l’impostazione marxista a lungo predominante nella storiografia resistenziale. Ma la lettura iper-politicizzata della storia della Resistenza che ha imperversato per decenni ha avuto un costo che va ben al dì là della sottovalutazione del contributo delle formazioni autonome. Questa lettura non aveva infatti alcuna possibilità di dar vita a una narrazione collettiva nel quale l’intero Paese potesse identificarsi, e così è stato. A settantacinque anni di distanza dalla fine della guerra, la memoria della Resistenza non solo resta un fattore profondamente divisivo all’interno del Paese, ma mostra sempre meno capacità di suscitare interesse nelle nuove generazioni.
La riscoperta della Resistenza autonoma giunge quindi in un momento di generale stanchezza della storiografia, che da una parte ha ormai del tutto abbandonato vecchi schemi interpretativi, dall’altra pare insicura sulla direzione da prendere per leggere quello che resta un periodo cruciale della storia recente. Il tentativo di questo volume è quello di dare un contributo in questa direzione, mettendo in luce quell’intersecarsi di conflitti e opzioni politiche che rappresenta un tratto saliente di tutta la storia della Seconda guerra mondiale in Europa.
NB Grassetto aggiunto.
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* Il testo che precede riproduce l’Introduzione di Tommaso Piffer al volume Le formazioni autonome nella Resistenza italiana, Marsilio, Venezia 2020, pp. 9-12. Ringrazio il professor Tommaso Piffer e la dottoressa Laura Valente per gli Editori Marsilio per la cortese autorizzazioner a ripubblicare il testo in questa sede.
** Il professor Tommaso Piffer insegna Storia contemporanea all’Università di Udine. È autore, tra gli altri, dei seguenti volumi:
– Il banchiere della Resistenza. Alfredo Pizzoni, il protagonista cancellato della guerra di liberazione, Mondadori, Milano 2005.
– Gli Alleati e la Resistenza italiana, il Mulino, Bologna 2010.
– (a cura di) Società totalitarie e transizione alla democrazia. Saggi in memoria di Victor Zaslavsky, il Mulino, Bologna 2011.
– (a cura di) Porzûs. Violenza e resistenza sul confine orientale, il Mulino, Bologna 2012.
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Fonti delle immagini
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