di Bepi Vigna
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1. La secessione sarda
La nascita in Sardegna di una scuola di artisti che hanno fatto dell’illustrazione e del fumetto il loro principale campo di espressione, può apparire un fatto abbastanza singolare, se si considera che nell’isola non vi erano strutture editoriali e industriali che offrissero reali opportunità a chi lavorasse in questi settori.
Eppure, a partire dai primi decenni del Novecento, gli autori sardi hanno iniziato a dire autorevolmente la loro nell’ambito della grafica applicata, trovando, soprattutto nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, anche una certa unità – se non sul piano strettamente stilistico, almeno su quello “ideologico” – all’interno di quella che è stata definita, “la secessione sarda”. Con questo termine, in realtà, non si è mai inteso indicare un effettivo distacco dai vecchi movimenti artistici che dominavano in Europa, ma si è voluta evidenziare soprattutto l’azione di rottura che gli artisti sardi hanno operato nei confronti della tradizione del realismo figurativo italiano.
Illustratori sardi
Congeniale a questo atteggiamento innovativo dei disegnatori era certamente il fatto di cimentarsi in ambiti considerati al limite dell’artistico, quali la vignetta satirica, l’illustrazione editoriale e la cartellonistica pubblicitaria. Non che vi fosse una precisa scelta in tal senso, al contrario: percorrere la strada di arti considerate generalmente minori era infatti l’unico sbocco consentito a coloro che non potevano che formarsi ed evolversi al di fuori dei grandi circuiti culturali.
C’è inoltre da tener presente che sia a Cagliari che a Sassari, fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, si stampavano diversi periodici, che nascevano quasi sempre nell’ambito dei circoli intellettuali o goliardici. Queste pubblicazioni consentirono a molti disegnatori di cimentarsi negli specifici campi dell’illustrazione giornalistica e della caricatura, ma soprattutto contribuirono a formare una mentalità nuova, che da un lato riconosceva alla grafica applicata una propria autonomia espressiva e da un altro scorgeva in essa delle nuove prospettive professionali.
Il merito di artisti quali Giuseppe Biasi, Felice Melis Marini, Filippo Figari, Edina Altara, Ennio Zedda, Mario Mossa De Murtas, Stanis Dessy, Pino Melis, Mario Delitala, Giovanni Manca, Tarquinio Sini, Remo Branca e di tutti gli altri illustratori sardi che si affermarono nel periodo che va dagli anni Dieci agli anni Trenta, è stato proprio quello di aver proposto un nuovo rapporto tra arte e grafica applicata, creando qualche seria incrinatura in quella concezione secondo cui l’arte sarebbe nobile solo quando si astrae da qualunque altro scopo che non sia quello puramente estetico (la cosiddetta ricerca del bello).
Quegli artisti, di cui la critica del periodo vantava la potenza evocativa delle xilografie e la poeticità delle illustrazioni, formavano certamente un gruppo disomogeneo e non avevano neppure coscienza del fatto che stessero inaugurando una tradizione, tuttavia è proprio dalla loro esperienza che occorre partire se si vuole tracciare una storia della narrativa a fumetti in Sardegna.
2. L’epoca dei giornali illustrati
Pinocchio
di Beppe Porcheddu
Dalla seconda metà dell’Ottocento, con l’affermarsi dei nuovi metodi di stampa, in tutta Europa si erano diffuse le riviste illustrate, molte delle quali dirette espressamente alla gioventù. In Italia le pubblicazioni di questo tipo si rivolgevano soprattutto a un pubblico di estrazione borghese, che affermava la propria appartenenza alla classe sociale anche attraverso la lettura.
Sul «Giornale dei Bambini», fondato a Roma da Ferdinando Martini nel 1881, era stato pubblicato Pinocchio, di Carlo Collodi, ed erano apparse alcune storie di Wilhelm Busch, considerato un precursore della moderna narrativa per immagini. Sul «Novellino», periodico romano diretto da Yambo, nel 1904 vennero proposte, per la prima volta nel nostro paese, le tavole della serie At the Circus in Hogan’s Alley, dell’americano Richard Felton Outcault, nelle quali compariva Yellow Kid, considerato da molti il primo autentico personaggio dei comics.
All’inizio del nuovo secolo, uno dei più importanti giornali italiani per la gioventù fu certamente il «Giornalino della Domenica», fondato da Vamba (ovvero Luigi Bertelli, il creatore di Giamburrasca). Pubblicato a Firenze a partire dal 1906, il settimanale si proponeva un preciso intento pedagogico, richiamandosi ai valori allora in auge tra la borghesia italiana, primo fra tutti l’amor di Patria, a cui si accompagnava un’attenta osservazione delle diverse realtà regionali. La rivista ospitava i maggiori disegnatori del periodo, da Aleardo Terzi a Umberto Brunelleschi, da Filiberto Scarpelli ad Antonio Rubino.
Proprio sul «Giornalino della Domenica» si mise in luce anche il sassarese Giuseppe Biasi, che si classificò terzo al primo concorso per copertinisti indetto dalla rivista e vinse quelli del 1907 e del 1908. Le illustrazioni di Biasi non avevano nulla a che spartire con gli stereotipi della più sdolcinata e diffusa iconografia sull’infanzia. I contorni spigolosi delle sue figure e le macchie uniformi delle campiture, creavano un effetto straniante e suggestivo e suggerivano al contempo, sia un ironico distacco dalla realtà, sia una malinconica consapevolezza. Biasi collaborò con regolarità al settimanale fino al 1910, realizzando ben 14 copertine, raffinatissime sotto il profilo della composizione grafica, molte delle quali avevano come tema la Sardegna. Egli costituì una sorta di “apripista” per un’intera generazione di illustratori sardi, molti dei quali furono da lui coinvolti in mostre e iniziative che avevano lo scopo di dare un’organizzazione al movimento artistico isolano.
Il «Giornalino della Domenica», soprattutto dopo la Prima Guerra mondiale, ospitò anche altri illustratori sardi, tra cui il bosano Pino Melis e la sassarese Edina Altara.
Pino Melis era un artista dal talento straordinario, capace di conciliare la raffinata semplicità del tratto con una notevole efficacia evocativa, qualità che elevavano la sua grafica a una dimensione di autentica poesia. Proveniva da una famiglia di artisti: suo fratello Melkiorre era un valido pittore e illustratore e un altro, Federico, era un ceramista allievo di Francesco Ciusa. Pino, dopo aver iniziato giovanissimo, esponendo in alcune mostre e collaborando alla «Rivista Sarda» diretta dal fratello Melkiorre, a soli diciassette anni si ritrovò a lavorare per il giornalino di Vamba, con cui collaborò dal 1919 al 1921.
Pinocchio
di Giovanni Manca
Edina Altara fin dall’esordio aveva ottenuto lusinghieri consensi di critica, con i suoi collages di carte ritagliate, tele e filo, presentati nel 1915 a Sassari alla mostra organizzata in favore della Mobilitazione Civile. Si era fatta poi notare l’anno dopo alla Mostra Campionaria del Giocattolo, di Milano, dove aveva proposto i suoi originali balocchi di carta. Sostenuta dal critico Raffaello Giolli, che l’aveva chiamata a lavorare a «Pagine d’Arte», la Altara era approdata all’illustrazione rivelando, almeno inizialmente, uno stile molto personale, dove le figure venivano sintetizzate in audaci composizioni geometriche, senza, tuttavia sacrificare la fresca spontaneità delle espressioni, né raffreddare l’impatto del decoro.
3. Il Corriere dei Piccoli
Il primato che il «Giornalino della Domenica» aveva guadagnato tra le riviste per ragazzi, venne meno quando apparve il «Corriere dei Piccoli», il supplemento del «Corriere della Sera» voluto da Luigi Albertini. Questi era tornato da un soggiorno in Inghilterra con nuove idee e grandi progetti di espansione per la casa editrice del quotidiano milanese. Albertini varò un progetto ambizioso, dando vita anche alla «Domenica del Corriere», una rivista illustrata per la famiglia, con una grafica che puntava sulle belle copertine di Achille Beltrame.
Il progetto della nuova pubblicazione per la gioventù fu messo a punto da Paola Lombroso Carrara (figlia del celebre antropologo e criminalista), ma il timone della testata venne affidato a Silvio Spaventa Filippi, giornalista di idee liberali e sensibile alle istanze nazionalistiche. Il nuovo periodico si affermò rapidamente come il giornale ufficiale dei ragazzi della borghesia italiana, mantenendo sempre una perfetta corrispondenza, sotto il profilo ideologico, con la testata madre.
Il «Corriere dei Piccoli», apparso per la prima volta nel dicembre del 1908, rinnovò in maniera radicale la pubblicistica periodica dedicata all’infanzia, chiamando a collaborare i grandi scrittori (tra cui anche Grazia Deledda) e presentando, accanto alle poesiole e alle fiabe, un nuovo genere di narrativa, quello basato sui quadretti disegnati, con sotto le didascalie in rima. In questa forma vennero proposti anche i personaggi dei comics americani, dalle cui tavole venivano cancellate le classiche nuvolette, sostituite con le filastrocche (dovute per lo più all’estro di Renato Simoni). Sembra sia stato il grande disegnatore Antonio Rubino a decretare l’ostracismo per i balloons, considerati ineleganti e diseducativi, e per oltre cinquant’anni la rivista rimase fedele a questa formula originaria.
Proprio sul «Corriere dei Piccoli», si mise in evidenza Mario Mossa De Murtas, un altro sassarese che, convinto da Biasi, aveva abbandonato una promettente carriera forense per dedicarsi alla pittura. Nel 1914 iniziò a collaborare regolarmente con il settimanale milanese, illustrando a colori racconti e filastrocche e mettendo in luce un estro decorativo raffinatissimo, dove emergevano, filtrati da un gusto moderno, riferimenti a Gustav Klimt e all’Art Nouveau.
Mossa De Murtas, in totale aderenza a quelle che erano le linee del giornale, tendenti a dare prevalenza all’immagine sul testo scritto, capovolse in maniera netta il consueto rapporto testo-disegno, rendendo le pagine affidate alla sua cura un allegro mosaico di accattivanti icone, che spaziavano dalla vignetta di stampo fumettistico al fregio meramente decorativo. Il segno elegante del disegnatore sassarese riusciva a conciliare una estrema sintesi grafica con il descrittivismo che era richiesto dal tipo di pubblicazione (diretta a un pubblico vasto), senza mai indulgere al decorativismo barocco, che invece caratterizzava, per esempio, le tavole di Antonio Rubino.
4. Le fiabe a quadretti
Le storielle illustrate con le didascalie in rima del «Corriere dei Piccoli», si affermarono rapidamente come la forma più popolare e gradita di letteratura per immagini. Ancora oggi i filologi del fumetto trovano deprecabile che i primi personaggi dei comics statunitensi siano stati manipolati e stravolti, persino nell’impostazione grafica delle storie (come accadde a Little Nemo di Winsor McCay), per adattare le loro avventure al gusto imposto in Italia dai redattori del «Corrierino». Bisogna però riconoscere che, nel nostro paese, un’autoctona scuola di fumetto nacque proprio con le storielle di Bilbolbul (di Attilio Mussino), Quadratino (di Antonio Rubino), Il Signor Bonaventura (di Sergio Tofano), Marmittone (di Bruno Angoletta), Sor Pampurio (di Carlo Bisi) e di tutti gli altri personaggi di quegli anni.
Gli autori che si cimentavano nelle fiabe a quadretti, non vedevano la didascalia in rima come una imposizione o una forzatura, ma la consideravano qualcosa di essenziale e inscindibile dal genere di narrazione che era loro richiesta. Sulla metrica delle didascalie veniva ritmato il racconto per immagini, spesso utilizzando soluzioni espressive originali e moderne. Sotto il profilo grafico le tavole risentivano fortemente dell’influenza dei movimenti pittorici dell’epoca (Cubismo, Dadaismo, Modernismo), mentre sul piano narrativo, le storie abbondavano di “nonsensi” e di divertenti soluzioni surreali. Considerati con sdegno dalla pittura ufficiale e dimenticati dagli accademici, gli autori di fiabe a quadretti hanno avuto una rivalutazione solo in tempi recenti. Quasi nessuno all’epoca si rese conto della ventata di novità che la narrativa grafica stava introducendo, dando concreta attuazione alle più avanzate ricerche che venivano condotte in campo artistico.
Tra gli autori che più di tutti si opposero al tradizionalismo, proponendo impianti figurali del tutto inediti, vi furono Bruno Angoletta, Mario Pompei, Diego Santambrogio e il sardo Ennio Zedda. Zedda era nato a Macomer, ma la sua famiglia si era trasferita a Cagliari quando lui era ancora giovanissimo. A causa dei rovesci finanziari del padre, dovette abbandonare gli studi e iniziare a lavorare, realizzando addobbi per le serate danzanti del Teatro Margherita e disegnando cartelloni pubblicitari. Iniziò anche a collaborare con diversi periodici sardi, facendosi apprezzare per le sue caricature e vignette. Trasferitosi a Roma nel 1930, entrò in contatto con la redazione della «Tribuna Illustrata» e poi, nel 1932, con quella del «Balilla», la rivista della Gioventù Italiana del Littorio.
Con l’avvento del fascismo, infatti, il panorama dell’editoria dedicata ai ragazzi si era ampliato: nel 1923 era apparso «Il giornale dei Balilla» (divenuto poi, dopo varie vicende editoriali, «Il Balilla») e, nel 1927, «La piccola Italiana». I due settimanali ricalcavano la formula collaudata del «Corriere dei Piccoli», ma si caratterizzavano per un più diretto intento educativo, fondato su valori cari al regime: l’esaltazione della patria e il ricordo della gloria passata, intesi come stimolo per future conquiste. Sulle pagine del «Balilla» pubblicheranno diversi autori sardi (Edina Altara, Primo Sinòpico e Pino Melis), ma Zedda sarà quello che lavorerà con maggior continuità, prolungando per oltre dieci anni la sua collaborazione alla rivista.
Nelle sue storielle, vi era sempre una particolare attenzione agli accostamenti cromatici, con intarsi vivacissimi che risentivano della lezione futurista, recepita anche nell’accurata composizione delle tavole, studiate per dare dinamicità al racconto, con un risultato quasi cinematografico. E non è certo un caso che l’autore sardo sia stato anche uno dei collaboratori, tra il 1935 e il 1936, delle Avventure di Pinocchio, il film incompiuto di Raoul Verdini, primo tentativo di realizzazione, in Italia, di un lungometraggio a disegni animati a colori.
5. I teatrini di Manca
Tra i disegnatori sardi degli anni Trenta, quello che ottenne il maggior successo, in termini di popolarità, fu il cagliaritano Giovanni Manca, firma tra le più gradite dai lettori del «Corriere dei Piccoli». Manca aveva iniziato la sua attività giovanissimo, cimentandosi anche nella caricatura, nella vignetta satirica e nel campo del cinema d’animazione. Durante il primo conflitto mondiale aveva curato una pubblicazione propagandistica per la Marina e Gabriele D’Annunzio in persona gli aveva commissionato l’emblema della Repubblica Veneta da riprodurre sulla carlinga del suo aereo. Dopo la guerra si era avvicinato al mondo dello spettacolo e aveva lavorato come scenografo e autore per il teatro Trianon di Torino. Proprio da un testo creato per uno spettacolo di rivista, nascerà Pier Cloruro de’ Lambicchi, il suo personaggio di maggior successo. Manca iniziò a lavorare per il «Corriere dei Piccoli» nel 1927, dopo aver maturato un’ampia esperienza collaborando con numerose altre riviste e dirigendo per qualche tempo «Il Guerin Meschino». Nei suoi teatrini illustrati, il disegnatore riversava tutto lo spirito irriverente e il gusto per lo sberleffo che avevano sempre caratterizzato la sua precedente produzione vignettistica.
Pier Cloruro de’ Lambicchi era un maldestro scienziato, inventore della prodigiosa “Arcivernice”, una pittura trasparente capace di rendere vive le figure ritratte su libri, quadri e manifesti. Ma i personaggi richiamati in vita, finivano quasi sempre per causare dei guai, ribellandosi spesso al loro evocatore.
Manca restò al «Corriere dei Piccoli» fino al 1950, creando altri numerosi simpatici eroi, come il pagliaccio Patatrac, Tamarindo, Macarietto e Don Gradasso Sbudelloni, ma nessuno riuscì a eguagliare la popolarità di Pier Lambicchi, che negli anni Sessanta venne poi riproposto dall’autore sulle pagine del quotidiano «Il Giorno» e sul supplemento «Il Giorno dei Ragazzi». A Pier Lambicchi è ancora oggi intitolato il premio per giovani autori di fumetti che si assegna annualmente a Prato.
6. Il sommo Giuseppe Porcheddu
Nella prima metà del Novecento, una delle maggiori personalità artistiche nel campo dell’illustrazione e della grafica, fu certamente Giuseppe Porcheddu, la cui opera ha influenzato molti dei maggiori autori italiani del dopoguerra, da Hugo Pratt a Dino Battaglia. Pur essendo nato a Torino, questo artista dal tratto raffinatissimo, vero virtuoso del pennino, era figlio di sardi – suo padre Giovanni Antonio era un ingegnere di Ittiri – e il suo nome venne sempre associato a quello degli altri illustratori isolani. D’altra parte, il suo legame con la terra d’origine si mantenne sempre solido, tanto che la sua prima esposizione pubblica avvenne alla “Mostra della Mobilitazione Civile” di Sassari, nel 1916, che rappresentò un importante momento di raccolta per gli artisti isolani.
Di carattere sensibile e introverso, Porcheddu aveva manifestato fin da giovanissimo una spiccata attitudine per l’arte e così, oltre a seguire gli studi classici, aveva coltivato da autodidatta la passione per la pittura e la musica (suonava, infatti, il violino). Dopo essere stato introdotto alle arti figurative da Leonardo Bistolfi, si mise a studiare i grandi illustratori inglesi, attratto non tanto dagli esponenti dell’arte decò, allora imperante, quanto dai neogotici dallo stile ironico e graffiante, quali Arthur Rackham. Ma rispetto agli artisti inglesi, che prediligevano gli universi onirici e fiabeschi, Porcheddu rimase sempre ancorato alla riproduzione del reale.
Sperimentò anche tecniche del tutto inusuali per l’illustrazione dei suoi tempi, come le matite colorate, i pastelli e le aniline su legno. Proprio questa lunga e costante ricerca contribuirà a plasmare il suo personalissimo stile.
Dopo aver esordito a soli 13 anni sul «Corriere dei Piccoli» e sulla «Domenica dei Fanciulli», a diciotto venne richiamato alle armi e combatté nella Prima Guerra Mondiale col grado di sottotenente nel terzo Reggimento Alpini. Una ferita riportata durante una battaglia sul Monte Grappa, proprio negli ultimi giorni del conflitto, lo rese claudicante per tutta la vita. Questo fatto, se da un lato contribuì ad acuire maggiormente il suo carattere schivo, non gli impedì tuttavia di essere presente a tutte le principali mostre collettive che si tenevano in Italia (espose anche alla “Mostra Sindacale Sarda” di Cagliari, nel 1933), ottenendo ovunque riconoscimenti e premi.
Negli anni Venti le sue collaborazioni con riviste e periodici si intensificarono: lavorò per «Il Pasquino», «L’Illustrazione del Popolo», «Numero», «Cuor d’Oro», «La Lettura», «Novella», «Il secolo XX», «Mondo Fanciullo», «La Scena Illustrata», «Marc’Aurelio», «Il Balilla», «La Stampa» e per la rivista sarda «Il Nuraghe». Nel 1928 uscì anche un volume antologico sulla sua attività grafica.
Porcheddu illustrò oltre cinquanta volumi di libri e si cimentò anche nella cartellonistica, nella pubblicità, nell’incisione, nella progettazione di giocattoli, nella decorazione di ceramiche per l’Ars Lenci; furono sue anche le scenografie del film Ettore Fieramosca, di Alessandro Blasetti. Ma la firma del disegnatore sardo si ritrova anche su coloratissime scatole di biscotti, su modelli decorativi per arredamento, su stoffe dalle originali fantasie.
Negli anni Quaranta Giuseppe Porcheddu intensificò la sua attività nell’ambito del fumetto. Per il «Corriere dei Piccoli» creò la serie dei Nanetti; per gli «Albi Juventus» disegnò Il Tabù violato e L’Invincibile spada; per il «Balilla» realizzò L’Anello di Burma e Lo Squadrone di riserva. Chiamato da Federico Pedrocchi a collaborare con la Mondadori, gli venne affidata una riduzione a fumetti dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift. Porcheddu vi lavorò durante gli anni della guerra, sceneggiando e disegnando 60 pagine di altissima qualità artistica. Quella storia, forse il suo capolavoro, purtroppo non venne mai stampata a causa dell’interruzione delle pubblicazioni di «Topolino».
Nonostante ciò, la sua collaborazione con la Mondadori non venne meno: Pedrocchi gli commissionò un’altra riduzione a fumetti, questa volta di un romanzo inedito di Eros Belloni. Si trattava di un melodramma a tinte fosche, nello stile della più classica letteratura d’appendice. Il protagonista era un ragazzo, Claudio di San Velario, il quale, una volta rimasto orfano, veniva condotto a vivere dalla sua unica parente, l’avara Duchessa Clementina, che abitava nel tenebroso castello di famiglia. La zia, per impedire che il nipote potesse impadronirsi delle sue ricchezze, tentava in ogni maniera di allontanarlo, anche con la complicità di alcuni pirati. Il povero Claudio doveva affrontare una serie infinita di tribolazioni, sorretto solo dall’amicizia di Isabella, figlia di un servitore della zia. Alla fine, però, il giovane ritrovava l’affetto e la benevolenza della vecchia parente, anche se doveva rinunciare alla compagnia di Isabella, la quale, colta da vocazione religiosa, decideva di prendere i voti e chiudersi nel convento delle suore Orsoline.
In questa storia – che tra l’altro influenzò notevolmente Hugo Pratt, quando negli anni Sessanta realizzò un riadattamento a fumetti dell’Isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson – Porcheddu mise in luce la sua modernità anche come autore di fumetti, proponendo originali tagli delle inquadrature e soluzioni espressive assolutamente innovative. Nel suo tratto raffinato, si rinvenivano echi di grandi maestri del passato, da Goya a Durer.
Il Castello di San Velario venne pubblicato solo nel 1948, nella collana “Albi D’Oro”, divisa in due parti (la seconda s’intitolava Il Mistero degli specchi velati) e con una nuova, ma riduttiva, impaginazione. Tra l’altro vennero inseriti i ballons che nell’originale versione non erano stati previsti. Per quanto riguarda i Viaggi di Gulliver, si riteneva che la storia fosse andata irrimediabilmente perduta, ma le tavole vennero recuperate molti anni dopo ed attualmente sono in possesso di un collezionista torinese.
Giuseppe Porcheddu scomparve il 27 dicembre del 1947, in circostanze piuttosto misteriose. Si stava recando a Roma, dov’era in programma una mostra dei suoi dipinti, ma improvvisamente di lui si persero le tracce. Si fecero diverse ipotesi: qualcuno immaginò che, colto da crisi mistica, si fosse ritirato in convento; altri ipotizzarono che potesse essere stato eliminato per motivi politici, ma la verità non si seppe mai. Con la sua scomparsa il mondo della grafica e del fumetto perdeva uno dei maggiori maestri della prima metà del Novecento.
Tutte le immagini provengono dalla Collezione di fumetti e libri illustrati di Raffaele Piras. icoNUR lo ringrazia per averle messe generosamente a disposizione.
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