di Vincenzo Medde
Disumana è la potenza della fame, se appena un impedimento separa l’uomo dal suo pane. La buona e naturale esigenza di nutrirsi si trasforma in una forza che distrugge milioni di vite, costringe le madri a mangiare i propri figli: la forza della barbarie, dell’abbrutimento.
Qualcosa si può ben perdonare all’uomo se, nel fango e nel fetore della violenza concentrazionaria, egli resta pur sempre un uomo.
V. Grossman, Tutto scorre…
Indice
1. Dopo Lenin, Stalin |2. Costruire il socialismo in un solo paese è possibile |3. Pianificazione e industrializzazione |4. Se le basi mancano, le possiamo costruire |5. Predare le campagne per finanziare l’industrializzazione |6. La crisi degli ammassi nell’inverno 1927-28 |7. La collettivizzazione integrale del lavoro agricolo |8. La resistenza contadina |9. Conseguenze della collettivizzazione e degli ammassi forzati |10. La liquidazione dei kulak |11. 1931: il raccolto diminuisce ma le requisizioni aumentano |12. Le condizioni di vita nelle città |Bibliografia
Parte prima
LE PREMESSE DI UNO STERMINIO
Tra l’autunno del 1932 e l’estate del 1933 quattro milioni di persone furono lasciate morire di fame in Ucraina e nel Kuban, una regione del Caucaso del Nord che apparteneva alla Repubblica russa ma che era abitata in prevalenza da Ucraini.
I responsabili di tale sterminio per fame furono Stalin e i suoi più stretti collaboratori (Vjačeslav Molotov, Lazar Kaganovič, Pavel Postyšev, Vsevolod Balickij), per il tramite di politiche economiche e sociali – industrializzazione accelerata, collettivizzazione forzata, liquidazione dei kulaki, requisizione armata dei prodotti agricoli – che, a partire dal 1928-29, avevano innescato un micidiale meccanismo mortifero.
1. Stalin, Molotov, Kaganovič, Postyšev, Balickij
La morte per fame, diretta conseguenza di tali politiche, non era né prevista né volutamente programmata in siffatte dimensioni, ma fu aggravata, manovrata e utilizzata da Stalin per abbattere e punire la resistenza dei contadini ucraini alla collettivizzazione e ai piani di requisizione del governo ed estirpare il sentimento nazionale della popolazione ucraina e delle sue élites intellettuali e politiche.
Per indicare tale sterminio per fame e la sua intenzionalità venne creato il termine Holodomor, unendo le parole holod (in ucraino fame, carestia) e moryty, uccidere (di stenti), affamare, esaurire.
L’intenzionalità della morte per fame in Ucraina nel 1932-33 è però tema assai controverso e diversi storici, senza negare in alcun modo le responsabilità di Stalin e dei dirigenti sovietici, ritengono che la grande carestia e le morti che ne conseguirono non furono l’effetto di una scelta deliberata e diretta in particolare contro gli Ucraini, ma l’esito di diversi fattori concomitanti: condizioni climatiche sfavorevoli, cattivi raccolti nel 1931-1932, politiche economiche sbagliate, impreparazione dei quadri intermedi, confusione nelle direttive, sforzo modernizzatore. La carestia e i morti, viene osservato, non furono una prerogativa della sola Ucraina, perché simili eventi si verificarono anche in altre repubbliche e regioni: Russia, Kazakstan, Siberia, Bielorussia.
In questa ricostruzione d’insieme, per affrontare il significato del Holodomor ho cercato di tener presenti le linee interpretative esposte da Andrea Graziosi, soprattutto in Le carestie sovietiche del 1931-33 e il Holodomor ucraino: è possibile una nuova interpretazione?, «Storica» X, 30, 2004, pp. 7-30.
1. Dopo Lenin, Stalin
Già all’indomani della scomparsa di Lenin, morto il 21 gennaio 1924, ebbe inizio una lotta senza esclusione di colpi tra coloro che avevano fatto la rivoluzione e avevano creato lo stato sovietico: Stalin, Trockij, Zinov’ev, Kamenev, Bucharin, Preobraženkij, Pjatakov, Dzeržinskij. La posta in gioco era il controllo del partito e dello stato e, tramite questi, dell’economia e dell’intera società in Urss.
Stalin, segretario generale del comitato centrale del partito dal 1922, aveva maturato una profonda conoscenza dell’apparato e un capillare controllo dei meccanismi di formazione degli organismi decisionali a tutti i livelli, cui univa una brutalità personale che secondo lo stesso Lenin lo rendeva inadatto a svolgere la funzione di segretario (ma Lenin aveva manifestato queste idee solo alla fine della sua vita). Forte di queste “qualità”, tra il 1924 e il 1926, Stalin sconfisse tutti suoi avversari, i quali, divisi, incapaci di radicarsi nell’apparato, limitati dalle decisioni del congresso del marzo 1921 che vietava le frazioni, persero prima le cariche e poi anche la vita, fucilati o “picconati” in quanto “nemici del popolo”.
Dittatore di fatto e senza concorrenti, Stalin procedette a tappe forzate a realizzare una sua strategia personale di abbattimento della Nep, ritorno al comunismo di guerra, indurimento della repressione su interi gruppi sociali (reali o ideologicamente costruiti), eliminazione fisica di avversari anche solo potenziali.
2. Costruire il socialismo in un solo paese è possibile
Uno dei punti di partenza di tale strategia può essere visto nell’approvazione all’unanimità delle sue tesi sulla «costruzione del socialismo in un solo paese» da parte della XV Conferenza del partito (27 ottobre-3 novembre 1926). Il colpo di stato dell’ottobre 1917 in un paese arretrato era stato una sorta di forzatura fatta dai bolscevichi convinti che la rivoluzione nei paesi capitalisticamente avanzati, in Germania in primo luogo, avrebbe sicuramente consentito di portare a buon fine un esperimento economico e sociale che il marxismo aveva fino al 1917 ritenuto impossibile e, in ogni caso, neppure da intraprendere.
Ma nel 1926 il sogno della rivoluzione in Europa era da un pezzo definitivamente tramontato e ai capi bolscevichi si era posto il problema dei modi e delle soluzioni per affrontare la nuova inedita situazione. Stalin si era convinto che fosse senz’altro possibile costruire una società socialista anche nella sola Unione Sovietica, basandosi sulle sue risorse naturali, sulla determinazione del partito comunista, sullo spirito di sacrificio del suo popolo, insomma, il “socialismo in un solo paese” era possibile e necessario.
Stalin sosteneva anche che questa condizione avrebbe dovuto scontare la pressione dell’accerchiamento da parte dei paesi capitalisti (Graziosi 2007: 255 parla di «paranoia da accerchiamento dei dirigenti bolscevichi»), per fare fronte al quale occorreva fare dell’Urss anche una potenza militare dotata di armi moderne ed efficaci. Ciò che implicava, a sua volta, la necessità di sviluppare, e in tempi brevi, un’industria pesante. Lo strumento organizzativo per giungervi venne individuato nella pianificazione, che avrebbe consentito l’utilizzazione ottimale e rapida delle risorse, che in Urss certo non mancavano.
3. Pianificazione e industrializzazione
L’idea di pianificazione si tradusse in un piano quinquennale che attribuiva al partito e allo stato tutte le decisioni di politica economica, la produzione e la distribuzione delle risorse, l’allocazione degli investimenti nei vari settori, la dislocazione dei lavoratori nei vari comparti e nelle aree geografiche prescelte. Ambiva ad 1) eliminare le distorsioni, il disordine, le crisi attribuiti alla natura stessa del mercato capitalistico, anche nei temporanei residui tollerati dalla NEP; 2) promuovere una industrializzazione a tappe forzate; 3) meccanizzare e modernizzare l’agricoltura distruggendo le unità produttive individuali o famigliari o comunitarie; 4) esercitare un controllo sociale ancora più marcato e, se necessario, repressivo e violento su quei gruppi, contadini o operai, meno disponibili ad accettare passivamente l’ulteriore irreggimentazione nei quadri ideologici e produttivi del volontarismo bolscevico.
Il primo piano quinquennale, che avrebbe dovuto coprire gli anni 1928-1933, sottoposto a numerose revisioni, sempre al rialzo degli obbiettivi, venne finalmente approvato nella sua variante massima nella XVI conferenza del partito nell’aprile 1929.
Il piano prevedeva che gli investimenti rispetto al 1924-1928 sarebbero quadruplicati, l’industria sarebbe cresciuta del 135% in cinque anni, il reddito nazionale dell’82% la produttività del lavoro del 110%; la priorità veniva assegnata all’industria pesante, alla quale veniva destinato il 78% degli investimenti di capitale. Dovevano essere costruite più di 2000 nuove fabbriche e 450.000 trattori.
Circa la realizzabilità del piano i dirigenti sovietici confidavano da un lato nella propria determinazione, dall’altro nel “sistema americano” che in fabbrica avrebbe combinato i contadini appena urbanizzati e dequalificati con i moderni sistemi di direzione aziendale e di produzione che non avevano bisogno di operai qualificati. «Senza capire che quei sistemi richiedevano quadri tecnico-manageriali che in Urss erano ancora più carenti della manodopera qualificata, si puntò perciò sull’imitazione di alcune grandissime aziende statunitensi, incaricando per esempio la Albert Kahn & C. di elaborare progetti industriali per un valore enorme» (Graziosi 2007: 249).
4. Se le basi mancano, le possiamo costruire
La costruzione, da parte del partito e dello stato sovietico, di un robusto apparato industriale avrebbe consentito non solo di difendere il primo stato socialista, ma anche di modernizzare la società e di costruire quelle strutture economiche, le basi del socialismo, che in un paese arretrato come l’Urss ancora mancavano. Così, mentre la società borghese e capitalistica si era progressivamente sviluppata dentro i precedenti modi di produzione per tradursi poi in nuove strutture statali e politiche, in Urss sarebbero state le nuove strutture statali e politiche, la dittatura del proletariato, a promuovere lo sviluppo economico che avrebbe poi consentito il passaggio al socialismo e al comunismo.
Si trattava, come ha osservato Andrea Graziosi, del «completo sovvertimento dell’originaria impostazione materialistica del marxismo, trasformato in un’ideologia dell’azione, che trova nello stato, agente soggettivo per eccellenza, lo strumento per far “saltare” “una base socioeconomica” che avrebbe invece dovuto – secondo il materialismo storico – determinare col suo sviluppo l’evoluzione della sovrastruttura».
Certo, questa concezione volontaristica del marxismo era stata già nel 1921-22 messa in dubbio proprio da Lenin, il “mago” che l’aveva per primo propugnata. Ma i dirigenti bolscevichi nel 1927 si dicevano convinti con Pjatakov (dirigente nei dicasteri economici sovietici e poi anche vicecommissario per l’industria pesante) che la rivoluzione socialista «non ha bisogno di presupposti materiali […] Il fattore chiave che determina tutto è la volontà creatrice, in grado di fare miracoli […] Poi si penserà a costruire i presupposti materiali» (in Graziosi 2006: 45-46).
Si trattava, scrive ancora Graziosi, di «una ideologia soggettivista di inizio Novecento, molto più simile alle ideologie soggettiviste di destra che non al socialismo ottocentesco nella sua vulgata socialdemocratica» (Graziosi 2010: 183).
5. Predare le campagne per finanziare l’industrializzazione
Ma, come finanziare il piano, dove trovare le risorse per realizzare l’industrializzazione, come appropriarsene?
La risposta Stalin la trovò già confezionata nelle teorie di Trockij e Preobrazenskij, che pure aveva fino a qualche anno prima rifiutato e combattuto fino alla liquidazione dei suoi sostenitori: le risorse necessarie all’industrializzazione dovevano essere estratte dal lavoro dei contadini, con le buone e, soprattutto, con le cattive.
2. Una squadra di requisizione ha scovato il grano nascosto
I metodi di estrazione e di espropriazione, le campagne statali di ammasso forzato, erano stati ampiamente sperimentati nel 1918 seguendo gli ordini di Lenin: impiegare sistemi barbari, reprimere «senza pietà», impiccare in modo visibile «centinaia di kulak». Altri suggerimenti Stalin li ricavò dalla pratica delle squadre che predavano le campagne in nome del governo: presa di ostaggi, inclusi donne e bambini, e loro esecuzione; deportazione, prima di elementi ostili, come i proprietari terrieri e i loro famigliari, poi di famiglie contadine e, infine, anche di interi villaggi; impiccagioni e torture di massa; fucilazioni per punire l'uccisione di un comunista (la cui vita valeva da dodici a cinquanta vite contadine); fucilazioni «percentuali» per punire i villaggi «covi» delle rivolte o del «banditismo»; fustigazioni di massa.
Agli occhi di Stalin tutto ciò era giustificato non solo perché l’obbiettivo finale lo richiedeva, ma anche perché condivideva, amplificandolo, il “mito dell’abbondanza dei cereali” che esagerava la consistenza delle riserve contadine, indisponibili però allo stato a causa della resistenza dei villaggi, che andava appunto domata con gli strumenti e gli uomini appropriati.
6. La crisi degli ammassi nell’inverno 1927-28
Ma le campagne non sembravano in grado di sostenere quel grande balzo in avanti che la dirigenza staliniana reputava indispensabile. Nell’ultimo scorcio del 1927, infatti, il governo sovietico si trovò a dover far fronte al crollo delle consegne di prodotti agricoli allo stato, ciò che non solo condizionava i programmi di industrializzazione, ma metteva in crisi l’approvvigionamento alimentare delle città e dell’esercito, con la conseguente minaccia di rivolte urbane.
I contadini, malgrado un buon raccolto, avevano consegnato solo 300 milioni di pudy [neppure 5 milioni di t.] invece dei 430 [7 milioni di t.] dell’anno precedente, perché, diffidenti delle intenzioni dei governanti, avevano costituito delle riserve per un futuro incerto e perché i prezzi imposti dallo stato erano largamente inferiori ai prezzi di mercato e del tutto insufficienti rispetto ai prezzi dei manufatti di cui avevano bisogno. Il governo sovietico ricorse agli strumenti violenti di sempre: mise in piedi una campagna di requisizione forzata di emergenza. Brigate operaie e comuniste (30.000 uomini) vennero inviate nelle campagne con il compito di purgare soviet e comitati locali, incapaci di far rispettare i piani di consegna dei cereali, e di requisire il grano nascosto. I metodi impiegati furono gli stessi del 1921, con il solito ruolo di segugi attribuito ai contadini poveri, che venivano premiati con il 25% dei cereali requisiti.
Stalin, volendo personalmente verificare e sorvegliare sul terreno la riproposizione della requisizione forzata dei cereali, dopo la breve e mal sopportata tregua della NEP, trascorse tre settimane in Siberia tra la seconda metà di gennaio e l’inizio di febbraio 1928, guidando i funzionari locali in «un’escalation di violenze nei villaggi» all’insegna del motto «premere, battere, spremere» (Chlevnjuk 2016: 133) che produssero certo un notevole aumento degli ammassi, ma al costo tremendo di gettare sul lastrico intere famiglie di contadini riducendole alla fame.
I “buoni” risultati della trasferta siberiana indussero Stalin ad estendere alle altre regioni cerealicole (Ucraina e Caucaso settentrionale) i metodi di espropriazione violenta del grano, che ancora una volta, almeno nell’immediato, conseguirono gli obbiettivi voluti. Al prezzo però di porre le basi di ulteriori difficoltà e situazioni di penuria, determinate dalla riduzione dei seminativi ad opera dei contadini medi (che producevano l’85% del grano immesso sul mercato) e dalle rivolte nelle campagne, che gli stessi bolscevichi contarono a migliaia nel corso del 1928.
Infatti, l’inverno seguente, nei mesi a cavallo tra il 1928 e il 1929, le consegne fruttarono allo stato ancora meno di quelle dell’anno precedente. I metodi di requisizione forzata si stavano rivelando pericolosi per la stabilità del regime sovietico, dispersivi perché dipendenti dalla brutalità e dall’organizzazione delle squadre locali, che non in ogni situazione potevano essere guidate e spronate dai capi del comitato centrale del partito, con risultati sempre aleatori e con contraccolpi che portavano sistematicamente ad una ulteriore riduzione del grano disponibile. Risultava chiaro, ancora una volta, che a questo modo le campagne non solo non avrebbero sostenuto l’industrializzazione, ma non avrebbero neppure sfamato le città. Era in gioco la possibilità stessa di costruire l’agognato “socialismo in un solo paese”.
7. La collettivizzazione integrale del lavoro agricolo
Al Plenum del Comitato centrale dell’aprile 1929 Stalin individuò nei contadini l’anello debole del sistema, accusandoli di essere gli unici responsabili della crisi, e propose una radicale riorganizzazione della proprietà agricola. Occorreva eliminare la proprietà privata, accorpare le aziende individuali in grandi organismi collettivi, eliminare alla radice l’autonomia produttiva e commerciale degli agricoltori, tenere sotto stretto controllo i residui del mercato, portare il socialismo nelle campagne collettivizzando integralmente l’agricoltura.
La guerra ai contadini e nelle campagne doveva fare un balzo in avanti, in modo che lo stato, e in esso, il gruppo ristrettissimo dei capi devoti a Stalin, potesse arrivare ad un controllo centralizzato e senza smagliature sia delle risorse che dei produttori di quelle risorse, i contadini, che, non lo si deve mai dimenticare, costituivano, ancor più che negli anni della guerra, la stragrande maggioranza della popolazione.
Il piano quinquennale prevedeva la collettivizzazione dell’agricoltura in Urss, la concentrazione cioè dei produttori e dei prodotti agricoli in enormi fattorie collettive, colcos, mettendo in comune terra, bestiame e attrezzature sotto lo stretto controllo del partito e dello stato; infatti, il presidente, formalmente eletto, era di fatto nominato dalle autorità e dirigeva praticamente da solo il lavoro dei membri del colcos. Per presiedere i colcos il partito inviò nelle campagne più di 25.000 attivisti dalle città.
Ai colcos, come pure a tutti i contadini rimasti fuori, venivano imposte delle quote di consegna dei prodotti agricoli secondo piani di ammasso determinati dal centro moscovita e realizzati sotto la responsabilità di organismi locali.
Il piano si fondava comunque sul mantenimento di un settore privato dominante che doveva coesistere con un settore statale e collettivo limitato, ma di qualità. Ma a partire dalla seconda metà del 1929 il piano venne più volte ritoccato al rialzo, soprattutto per quanto riguarda la collettivizzazione.
Inizialmente era prevista la collettivizzazione di 5 milioni di famiglie entro il 1933, poi l’obbiettivo venne gonfiato fino a indicare 8 milioni di famiglie nel solo anno 1930 e la metà di tutta la popolazione rurale entro il quinquennio; ma ad agosto del 1929 l’obbiettivo fissava a 10 milioni le famiglie da collettivizzare entro il 1930, ben presto aumentato a 13 milioni, finché a dicembre si arrivò a parlare di 30 milioni.
Una risoluzione del Plenum del Comitato centrale nel novembre 1929 affermava con sicurezza che: «La costruzione del socialismo sotto la guida della dittatura del proletariato può essere realizzata ad una velocità ancora sconosciuta nella storia» (cit. in Werth 2000: 263).
In effetti, i mezzi per portare i contadini nelle fattorie collettive e costringerli a rispettare i piani di ammasso, in realtà dei veri e propri sequestri, erano piuttosto convincenti: brigate composte da migliaia di operai mobilitati per l’occasione, milizie locali, truppe della polizia politica, gruppi di contadini poveri guidati da uno «stato maggiore della collettivizzazione» irrompevano nei villaggi e, convocata l’assemblea comunale, imponevano l’ingresso nei colcos minacciando e irrogando arresti, tagliando i rifornimenti di manufatti, bloccando gli approvvigionamenti alimentari. Dal centro moscovita vennero sistematicamente messe in pratica misure di ricatto economico: aumento delle imposte e blocco dei crediti. Se anche una minoranza, spaventata, firmava per la collettivizzazione, l’intero villaggio veniva dichiarato collettivizzato al 100%.
Così, a seguito di repressione, violenza, ricatti economici alla fine del 1932 risultavano collettivizzati i 2/3 delle aziende contadine con i 4/5 dei terreni.
«La costituzione del 1933 consolidò giuridicamente la nuova forma di proprietà colcosiano-cooperativa, e la posizione giuridica della famiglia colcosiana. Nel 1937 le aziende collettive riunivano già il 93% delle famiglie. […] Per lunghi anni (fino alla metà degli anni ’60), i kolchoziani furono i “servi della gleba” dello Stato sovietico: esclusi dai mezzi di produzione, privati della possibilità di disporre dei risultati del loro lavoro e, di fatto, limitati nei loro diritti civili» (Storia del Gulag).
8. La resistenza contadina
Contro la collettivizzazione e i piani di ammasso obbligatorio, i contadini – che così perdevano le loro terre, il diritto di disporre del frutto del loro lavoro, la libertà di organizzare le risorse della famiglia e della comunità, mentre lo stato requisiva una quota che andava dal 30% al 40% del raccolto annuale –, manifestarono in vari modi il rifiuto della statalizzazione della loro vita e del peggioramento conseguente delle condizioni di esistenza: nascosero le riserve di grano per l’alimentazione e per la semina, diminuirono le superfici coltivate, macellarono gli animali prima del conferimento forzato e gratuito nei colcos.
3. Famiglia kulak sulla strada dell'esilio
con le poche cose che restano
La resistenza contadina ai progetti bolscevichi, come già nel 1918-1921, si tradusse spesso anche in sommosse e rivolte, aggressioni e uccisione dei funzionari di partito (furono uccisi o feriti 15.000 agenti dell’OGPU), cacciata dai villaggi dei rappresentanti del governo, devastazione dei soviet; per il solo anno 1930 la polizia politica enumerò più di 14.000 sommosse, alle quali parteciparono circa 3.500.000 contadini. Rilevante fu la partecipazione e il ruolo delle donne, le cui manifestazioni, secondo la polizia politica, furono più di 3700, spesso innescate dalla collettivizzazione delle mucche da latte, fonte di sopravvivenza dei loro bambini. In alcune zone del Caucaso Settentrionale, dell’Asia Centrale e del Kazakstan sorsero formazioni armate, per combattere le quali il governo dovette inviare reparti dell’Armata Rossa e dell’OGPU.
9. Conseguenze della collettivizzazione e degli ammassi forzati
La collettivizzazione e i piani di ammasso, che dovevano portare il socialismo nelle campagne e farne la cassaforte dello sviluppo industriale, anche a causa dell’improvvisazione e dell’incompetenza dei nuovi padroni delle terre, i funzionari del partito e dello stato, condussero invece al marasma produttivo, alla diminuzione delle superfici coltivate, al crollo della produzione agricola e del numero degli animali da lavoro e da carne, alla miseria, alla fame in un quadro di costante feroce repressione.
Se il raccolto del 1930 arrivava a 100, quello del 1931 e 1932 non oltrepassava 70.
Nel 1932 l’Urss aveva perso metà degli animali da lavoro e da carne e solo trent’anni dopo, nel 1958, avrebbe riguadagnato il livello del 1928. Il numero dei cavalli da lavoro e dei buoi si ridusse da 27,4 milioni nel 1928 a 17,9 milioni nel 1932, determinando un forte aumento del carico di lavoro per ciascun capo, ciò che avrebbe causato un peggioramento dei lavori agricoli, un aumento dei tempi di semina, una contrazione del raccolto.
Ma lo stato, nonostante tutto, lungi dal rimodulare le requisizioni e i piani ammasso, li aumentava e li inaspriva ulteriormente. Nel 1930 i contadini dovettero versare il doppio del grano versato nel 1928; nelle regioni a più alta produzione cerealicola le requisizioni oscillarono tra il 35% e il 40% mentre nel 1928 arrivavano al 20-25%. Ad esempio, nel Caucaso settentrionale nel 1928 si raccolsero 49,3 milioni di quintali di grano e vennero requisiti 10,7 milioni di quintali, nel 1930 il raccolto fu di 60,1 milioni di quintali e le requisizioni furono pari a 22,9 milioni di quintali. Insomma, nel giro di due anni il prelievo forzato passò dal 21,7% al 38,1% del raccolto annuale.
La situazione, anche e soprattutto nelle regioni a forte impronta cerealicola, diventava drammatica.
In un disperato messaggio, rivolto a Stalin il 10 febbraio 1932, un membro del Komsomol (la Gioventù comunista) del villaggio di Poloniste (regione di Vinnycja in Ucraina), così illustra la situazione nelle terre collettivizzate:
«Buon giorno, caro segretario del partito comunista, compagno Stalin! Le scrivo questa lettera da uno sperduto villaggio dell’Ucraina. Prenda una carta militare e troverà il villaggio sul fiume Jatran’: si chiama Poloniste ed è situato nella provincia di Uman’, distretto di Babans’k. Ascolti un po’ quanto segue, compagno Stalin!
Nel villaggio ci sono 317 aziende contadine, collettivizzate al 100%. Ma pensa che qui vi sia il potere sovietico? No, non c’è un ordinamento sovietico, ma un regime borghese. […] Il villaggio ha eseguito il piano [degli ammassi] al 65%. Il colcos ha dato via tutto il grano fino all’ultima libbra, tutti i prodotti della terra. Ora i cavalli non hanno niente da mangiare, solo paglia sminuzzata, mista a crusca e cosparsa di melassa; ne sono morti già 56. Nel villaggio ogni giorno muoiono di fame 3-4-6 cavalli, non è rimasto neppure un chicco di grano. Prima si allevavano 500 maiali, ne sono morti di fame già 184; le bestie sopravvissute si nutrono di bagassa e di paglia tritata mista a crusca. Ci sono soltanto 60 mucche, di cui 46 destinate al macello, sicché a disposizione del villaggio ne restano 14. Ecco come viene nutrito il bestiame in un distretto, basato sulla coltivazione della barbabietola e sull’allevamento; si prevede che nel giro di due mesi tutto il bestiame perirà. E cominciano a morir di fame le persone, ormai gonfie, e i bambini chiedono “pane, pane”. […]. Non ci danno neanche una libbra di paglia, nelle casupole c’è freddo. Deculachizzano i contadini poveri, e i colcosiani vengono espulsi dal colcos perché non consegnano il grano» (cit. in Cinnella 2015: 127).
10. La liquidazione dei kulak
I bolscevichi, che non avevano mai amato i contadini, considerati arretrati, controrivoluzionari e membri di una classe in declino, avevano già messo in conto la resistenza nelle campagne, (ma non l’entità e l’estensione) come pure gli strumenti per farvi fronte: violenza, torture, deportazione. Venne così stabilito che era necessario «liquidare i kulak come classe», come aveva annunciato Stalin in un intervento alla Conferenza degli agrari marxisti il 27 dicembre 1929.
Ma chi erano i kulak? Miljutin, commissario all’agricoltura del primo governo bolscevico chiese: «Che cos’è un kulak? Fino ad oggi non c’è stata alcuna definizione chiara, concisa, del ruolo del kulak nel processo di stratificazione sociale» (Conquest 1986: 92-93). A quella domanda nessuno diede mai una risposta chiara e univoca, e kulak furono chiamati tutti quelli che, a torto o a ragione, venivano sospettati neppure di attività, ma anche solo di intenzioni anticomuniste. La definizione di kulak da parte del governo e dei dirigenti comunisti fu sempre oscillante, spesso contraddittoria e comunque mancavano gli strumenti statistici adeguati per identificare e quantificare la presunta articolazione di classe dei contadini nei villaggi. Così, molto spesso, l’identificazione del kulak rimase compito degli organismi locali, dei cosiddetti comitati di contadini poveri, delle squadre di requisizione, sulla base di criteri che non avevano alcun riferimento obbiettivo alla condizione economica e sociale.
In realtà la liquidazione dei kulak come classe fu in primo luogo indirizzata a decapitare le élites contadine, gli agricoltori più intraprendenti, quelli che, fatta esperienza nell’esercito o altrove, lontano dal villaggio, vi erano rientrati con idee e capacità nuove, quelli che avevano reso possibile durante gli anni della Nep il rifiorire dell’agricoltura dopo la catastrofe agraria del comunismo di guerra.
4. Forzati al lavoro nel cantiere del canale Mar Bianco-Mar Baltico, 1932
Il 30 gennaio 1930 il Politbjuro del CC, riprendendo le disposizioni di una commissione presieduta da Molotov, divise i kulak in tre categorie: la prima, di 63.000 famiglie, includeva i kulak «impegnati in attività controrivoluzionarie», in pratica quelli che avevano resistito alla collettivizzazione o che, comunque, di questo fossero accusati; questi sarebbero stati arrestati e reclusi in campi di concentramento mentre i più irriducibili sarebbero stati fucilati. La seconda, di 150.000 famiglie, comprendeva i kulak che non si erano opposti alla collettivizzazione, ma che, avendo dato lavoro a qualche salariato, erano ritenuti ugualmente controrivoluzionari; i kulak di questa categoria e i famigliari dei kulak della prima dovevano essere arrestati e deportati in Siberia e Kazakstan, lontanissimo dai villaggi di residenza, e collocati in insediamenti speciali; le loro aziende e proprietà sarebbero state confiscate insieme con tutte le scorte alimentari e tutti i risparmi. I kulak della terza categoria, benché considerati fedeli al regime, sarebbero stati arrestati e deportati su terre bisognose di miglioramenti poste ai limiti delle loro regioni e fuori delle aree collettivizzate.
In quale modo le autorità comuniste arrivavano a determinare il numero dei contadini da “dekulakizzare” e a identificare i kulak nei villaggi? Le autorità centrali stabilivano il numero totale delle famiglie da liquidare, le regioni facevano un piano di massima e stabilivano quanti contadini eliminare in ogni distretto, i distretti ripartivano la cifra per i soviet di villaggio e i soviet preparavano le liste degli sventurati da fucilare, deportare, espropriare. Materialmente le liste erano preparate da una troika: il segretario del partito, un membro del soviet locale e uno dell’OGPU.
Cosa accadeva in effetti nei villaggi durante le operazioni di dekulakizzazione? Lo racconta Anna Sergeevna, attivista di partito da giovane, una delle figure protagoniste dell’opera di Vasilij Grossman Tutto scorre…,
«La dekulakizzazione cominciò nel ’29, alla fine dell’anno, ma la svolta decisiva fu nel febbraio e marzo del ’30 … Cominciarono coll’arrestare soltanto i capifamiglia … Messi i prigione i padri, all’inizio del 1930 cominciarono a prendere le famiglie. A questo punto la sola GPU non bastò, furono mobilitati gli attivisti, tutta gente come noi, che conoscevamo; a questi però cominciò a dar di volta il cervello: come affatturati, minacciano con i cannoni, chiamano i bambini dei kulaki “figli di puttana”, gridano loro “sanguisughe” … Guardano quella gente da dekulakizzare come fosse del bestiame, dei porci, per loro tutto nei kulaki è repellente: non hanno personalità né anima, e puzzano, e sono tutti sifilitici, e – quel che più conta – sono nemici del popolo e sfruttano il lavoro altrui … Come soffriva la gente, quante gliene facevano! E io a dire: non sono uomini, questi, è solo kulakaglia. E poi rivango, rivango e penso: chi ha inventato quella parola: kulakaglia? Che sia stato Lenin? Quale tormento si è addossato! Per ucciderli, si è dovuto spiegare che i kulaki non erano uomini. Sì, come quando i tedeschi dicevano: i giudei non sono uomini. Allo stesso modo Lenin e Stalin: i kulaki non sono uomini. Ma questa è una menzogna! Uomini! Uomini erano. Ecco ciò che principiai a capire. Tutti uomini!» (Grossman 1987: 132-135).
Sei mesi dopo la decisione formale di liquidare i kulak, ad agosto del 1930, i repressi e dekulakizzati superavano il milione e mezzo. In due anni giunsero negli insediamenti speciali 388.000 famiglie, circa 1,8 milioni di persone; non è possibile calcolare quanti morirono durante il viaggio di deportazione o quanti riuscirono a fuggire. La maggior parte delle famiglie deportate, 63.700, proveniva dall’Ucraina; 52.100 dalla Siberia Occidentale 38.400 dal Caucaso Settentrionale. I deportati negli insediamenti speciali dal 1930 al 1940 furono 2.540.000.
In quali condizioni essi avessero viaggiato e come vivessero, l’apprendiamo dalla seguente protesta inviata al presidente del soviet supremo (cioè al capo dello Stato) Kalinin da un gruppo di operai e cittadini di Vologda
«Cominciamo dall’inizio. Sono stati spediti verso i terribili geli bambini ancora poppanti e donne incinte, che hanno viaggiato in vagoni bestiame ammucchiati l’uno sull’altro: è qui che le donne hanno partorito (non è questo un oltraggio?). Poi sono stati fatti scendere dai vagoni, come cani, e sistemati in chiese e in magazzini sporchi e freddi, dove non avevano neanche modo di muoversi. Li tengono semiaffamati, nella sporcizia, tra i pidocchi, al freddo e alla fame; qui si trovano migliaia di bambini, gettati all’arbitrio della sorte come cani, ai quali nessuno intende rivolger l’attenzione. Non c’è da stupirsi che ogni giorno ne muoiano 50 e più (solo nella città di Vologda); presto il numero di questi bimbi innocenti spaventerà la gente, ché già adesso è superiore a tremila» (cit. in Cinnella 2015: 76-77).
I kulak deportati furono impiegati come lavoratori forzati nei campi (in terre ancora da dissodare), nel taglio dei boschi, nei cantieri industriali, nell’industria pesante, nei giacimenti carboniferi e nelle miniere d’oro situati nel nord della Russia Europea, in Kazakstan, negli Urali, nella Siberia Orientale e Occidentale.
Il lavoro e la fatica, in condizioni oltre il limite di resistenza umana, la fame, il gelo, le malattie provocarono solo nei primi due anni fra i 350.000 e i 400.000 morti.
11. 1931: il raccolto diminuisce ma le requisizioni aumentano
Requisizione predatoria delle derrate agricole, industrializzazione accelerata, collettivizzazione forzata, liquidazione dei kulak, comportarono conseguenze gravissime nelle campagne, soprattutto per i contadini.
Il raccolto del 1930 (83,5 milioni di t.) superò del 20% quello degli anni precedenti, ma le requisizioni statali, condotte con i metodi estorsivi di sempre, raddoppiarono rispetto allo stesso periodo di tempo (22 milioni di t.). Il grano preso ai contadini veniva esportato soprattutto in Germania in cambio di macchine per l’industria: dal 1931 al 1936 la metà delle macchine importate fu infatti di origine tedesca. Il tributo forzato delle campagne non si limitò peraltro al grano, le macchine infatti furono pagate anche con l’oro estratto dalle miniere del bassopiano della Kolyma dai contadini deportati e ridotti in pratica in stato di schiavitù.
Il raccolto del 1931 fu inferiore a quello dell’anno precedente (69 milioni di t.), ma le requisizioni (22,8 milioni di t.) superarono quelle del 1930, risultato del prelievo forzato dai colcos pari a un terzo del prodotto, ma che poteva arrivare fino all’80%. Lo stesso anno le esportazioni raggiunsero le 5 t. Per valutare le implicazioni di tale estorsione basti ricordare che durante gli anni della NEP i contadini vendevano il 15-20% del raccolto, conservavano per la semina il 12-15%, riservavano il 25-30% al bestiame e consumavano il restante 30-35% (Werth 2000: 267). Insomma, dopo gli ammassi e le requisizioni ai contadini non restava neppure il minimo necessari per sfamarsi e per seminare la stagione successiva.
Sicuro delle proprie ragioni, ma, soprattutto, della propria forza, il governo decise che le campagne nel 1932 avrebbero dovuto consegnare allo stato 29,5 milioni di tonnellate di cereali. Di nuovo, lo spettro della fame spinse i contadini ad una disperata resistenza; nei primi tre mesi del 1932 nelle campagne sovietiche ci furono seicento insurrezioni di massa, che diventarono più di mille nei tre mesi successivi. Alle rivolte, estremamente rischiose per la vita dei contadini, si accompagnavano forme di resistenza passiva che si manifestavano in due modi: costituzione di fondi personali di sopravvivenza minima vitale e rifiuto di lavorare nei colcos se non avessero ricevuto anticipi in natura sulle giornate di lavoro cui erano obbligati.
Il viceconsole italiano in una città sul Mar Nero, Leone Sircana, così, icasticamente, presentò la situazione di abbrutimento in cui la politica sovietica aveva precipitato gli agricoltori: «Il contadino non crede a nulla, lavora il meno e il peggio possibile, appena può ruba, nasconde o distrugge i suoi prodotti, ma non li cede spontaneamente» (cit. in Graziosi 2007: 327-28).
La situazione nella primavera del 1932 stava diventando sempre più critica e, mentre in alcuni regioni (Kazakstan) si cominciava morire d’inedia, nelle principali regioni cerealicole la superficie seminata diminuiva drasticamente; in Ucraina al 15 maggio risultavano seminati solo 8 milioni di ettari contro i quasi 16 del 1930 e i 12,3 del 1931.
Secondo Stalin e il gruppo di governo la crisi nelle campagne – rivolte e diminuzione delle aree coltivate – non era dovuta alla collettivizzazione forzata, alle requisizioni violente e alla liquidazione dei kulak, ma ad un complotto organizzato dai residui dei contadini ricchi e della borghesia, che vibravano il colpo di coda prima di scomparire. Così venne intensificata la repressione in loco e la deportazione in regioni lontane e inospitali del paese.
12. Le condizioni di vita nelle città
In effetti la pressione violenta del governo sovietico sulle campagne rifletteva l’urgenza di reperire le risorse per pagare le cambiali ai tedeschi e per sfamare i milioni di operai delle le città e dei grandi cantieri che si erano moltiplicati ed estesi con l’intensificarsi dell’industrializzazione. I lavoratori dell’industria in un solo anno erano cresciuti da 3,8 a 4,6 milioni, mentre quelli dell’edilizia erano passati da 1,8 a 2,8 milioni, ai quali bisognava aggiungere una forte componente femminile dovuta all’ingresso in fabbrica di moltissime donne, dovuto alla necessità di portare in famiglia un secondo salario e una seconda tessera di razionamento, considerato il degrado generale delle condizioni di vita.
Nelle città le famiglie vivevano spesso in una sola stanza o in angoli di stanza divisi da lenzuoli, sempre meglio comunque che nei grandi cantieri del socialismo dove i lavoratori vivevano in tende, vagoni abbandonati, buche scavate per terra, baracche condidivise da più famiglie, definite dagli stessi capi comunisti dei “porcili”.
A queste condizioni di vita miserevoli nelle città si aggiungeva nella primavera del 1932 l’incubo della fame, perché il governo dalla fine di marzo aveva deciso di tagliare di oltre un terzo le razioni degli operai dell’industria leggera. Anche nelle città si verificarono ondate di scioperi con la partecipazione di migliaia di lavoratori, in marcia verso il centro cittadino, ai quali si univano casalinghe, invalidi, contadini inurbati senza documenti e senza diritti, con un’unica richiesta: dateci da mangiare perché stiamo morendo. Insomma, secondo uno slogan degli scioperanti, si era passati dalla fame leninista del 1919 a quella stalinista del 1932.
Si capisce quindi la paura del governo comunista del malcontento nelle città, perché qui la concentrazione della forza lavoro poteva alimentare sommovimenti sociali e politici incontrollabili.
NB Il grassetto è sempre dell’autore dell’articolo.
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