IL PIEDESTALLO INFRANTO DELLA STATUA1

Il piedestallo infranto della statua viene ridotto in pezzi,
Stride l’acciaio dei martelli pneumatici.
La speciale miscela di cemento durissimo
Era calcolata per durare millenni.
Il tempo è arrivato così presto.
Ed è così che la lezione attuale è chiara:
Lo smodato concentrarsi sull’eternità
Non comporta nessun vantaggio, possiamo affermare con giustizia.
Ma queste pietre sono così saldamente serrate,
Che bisogna sudare per ridurle in pezzi.
Ma anche concentrarsi troppo sull’oblio
Richiede non poca fatica.
Tutti i manufatti nel mondo in cui viviamo
Possono essere fatti a pezzi dalle mani dell’uomo.
Ma il punto più importante è questo:
In sostanza la pietra non può
Mai essere buona o cattiva

Alexander Tvardovsky

 

di Vincenzo Medde

Indice  

(Cliccare sulle immagini per ingrandirle)

 

In alcuni paesi si abbattono o si spostano statue, monumenti e targhe per decolonizzare, in altri per defascistizzare, nei paesi dell’ex impero sovietico per desovietizzare e per decomunistizzare. Per capire la “guerra per la memoria” in Polonia occorre prima ricordare brevemente alcuni aspetti cruciali della storia polacca dall’indipendenza nel 1918 al 1945.

1. POLONIA E URSS 1920-1989

1.1. La guerra russo-polacca

Soldati polacchi nel villaggio di Janki, agosto 1920

1. Soldati polacchi addetti a una mitragliatrice nel villaggio di Janki, agosto 1920.

Il 25 aprile 1920 i Polacchi, che avevano da poco riconquistato l’indipendenza, invasero l’Ucraina inseguendo il disegno di Josef Pilsudski (1867-1935) di ricostituire una federazione di stati che includesse i paesi baltici, la Bielorussia e l’Ucraina. Ma le armate bolsceviche contrattaccarono e arrivarono fino a Varsavia, con il progetto di fomentare e sostenere una sollevazione comunista in Polonia per arrivare poi fino in Germania, dove la rivoluzione sarebbe stata decisiva sia per la conquista dell’Europa sia per il sostegno al nuovo stato nato nell’ottobre del 1917. Ma in Polonia non ci fu alcuna sollevazione pro-comunista, ci fu anzi una ripresa dell’offensiva da parte dei Polacchi che obbligò i Bolscevichi a rinunciare sia alla rivoluzione in Polonia, sia, almeno per il momento, a quella, ben più importante, in Germania. Il 18 marzo 1921 il patto di Riga sanzionò di fatto il blocco dell’avanzata rivoluzionaria nell’Europa centro orientale.

1.2. I patti nazi-sovietici del 23 agosto e del 28 settembre 1939, l’invasione del 17 settembre 1939, il massacro di Katyn

I Sovietici, che ritenevano la Polonia un «mostruoso parto del trattato di Versailles», il 23 agosto e il 28 settembre 1939 avevano sottoscritto dei patti con protocolli segreti con i Nazisti, che avevano come obbiettivo la spartizione della Polonia tra Germania e Urss e l’assegnazione dei territori baltici ai Sovietici. La Polonia venne invasa dai Tedeschi il 1° settembre e dai Sovietici il 17. Insieme con l’Armata Rossa arrivò in forze l’NKVD, che in Urss aveva acquisito un’esperienza di violenza politica a quel tempo sconosciuta ai Nazisti. Il 5 dicembre 1939 fu organizzata la prima ondata di deportazioni. Nel febbraio successivo 139.794 persone vennero stipate su treni diretti ai gulag del Kazakistan sovietico. Molti Ebrei polacchi, accusati di capitalismo, furono deportati in aprile. Nei mesi successivi all’invasione furono deportati nei gulag sovietici circa 292.513 cittadini polacchi, ai quali sono da aggiungere altri 200.000 circa arrestati nel corso di operazioni diverse. Il complesso dei deportati era costituito per il 60% da Polacchi, il 20% da Ebrei, il 10% da Ucraini, l’8% da Bielorussi (Snyder, Terra Nera: 159-160). Ma dei 78.339 deportati nel giugno del 1940 circa l’84% era ebreo (Snyder, Terre di sangue: 175).

Soldati polacchi nel villaggio di Janki, agosto 1920

2. Il professor Vincenzo Palmieri, membro della Commissione medica internazionale, detta i risultati dell’esame di un cadavere del massacro di Katyn.

Uno degli obbiettivi principali dei Sovietici, come anche dei Nazisti, era quello di distruggere l’élite e la classe dirigente polacca, affinché non fosse più possibile organizzare la resistenza e la lotta per la ricostituzione di uno stato nazionale indipendente. L’episodio più significativo di tale distruzione è rappresentato dal massacro, nell’aprile-maggio 1940 di circa 15.000 ufficiali, il gruppo di comando dell’esercito polacco proveniente dalle classi colte, alcuni dei quali avevano anche partecipato alla guerra russo-polacca. L’ordine del massacro, eseguito dall’NKVD nella foresta di Katyn e in altri campi e prigioni dell’Ucraina e della Bielorussia, era stato dato direttamente da Stalin e dagli altri sei membri del Politburo: Molotov, Berija, Vorošilov, Mikojan, Kaganovič e Kalinin.

1.3. L’insurrezione di Varsavia dal 1° agosto al 2 ottobre 1944

L’esercito tedesco entrò in Polonia il 1° settembre 1939. Il confronto con l’esercito polacco era spaventosamente impari quanto a soldati mobilitati, equipaggiamento, armi, potenza di fuoco, tenuto anche conto del fatto che, su richiesta di Inglesi e Francesi, la mobilitazione era stata ritardata.

La resistenza delle forze armate polacche durò dal 1° settembre al 5 ottobre, cinque settimane, sforzo straordinario se si pensa che l’anno seguente i Tedeschi sconfissero Francesi, Inglesi, Belgi e Olandesi in sei settimane e mezzo. In seguito, i Polacchi continuarono a combattere all’estero, negli eserciti Alleati, e all’interno, in formazioni clandestine inquadrate in un esercito nazionale (Armia Krajowa, AK). Organizzarono anche uno stato, che comprendeva un’amministrazione civile, istituzioni educative e un sistema giudiziario, tutti operanti clandestinamente.

3. Edificio colpito da una granata di due tonnellate il 28 agosto, durante la rivolta di Varsavia

3. Edificio colpito da una granata di due tonnellate il 28 agosto, durante la rivolta di Varsavia.

Dopo Stalingrado e il conseguente arretramento dei Tedeschi, l’avvicinamento dell’Armata Rossa a Varsavia nell’estate del 1944 provocò nei Polacchi speranza e timore; speranza per la cacciata dei Tedeschi, timore che ad una dittatura se ne sostituisse un’altra, come poi accadde. Il 1° agosto l’AK di Varsavia lanciò un attacco su vasta scala contro i Tedeschi al fine di stabilire nella città un’amministrazione polacca indipendente prima dell’arrivo dei Sovietici e acquisire una posizione di forza nei futuri negoziati.

Ma i Tedeschi fecero arrivare a Varsavia altri 40.000 soldati ben equipaggiati, dotati di artiglieria, cari armati e aerei. Dopo 63 giorni di disperata resistenza, dal 1° agosto al 2 ottobre 1944, l’insurrezione fu stroncata e la città rasa al suolo.

L’Armata Rossa, che era arrivata a qualche diecina di chilometri da Varsavia, aveva bloccato deliberatamente la sua offensiva ed era rimasta ferma dall’altra parte della Vistola. Gli aerei sovietici rimasero a terra, permettendo ai Tedeschi di bombardare la città senza ostacoli. I Sovietici, inoltre, disarmarono anche i distaccamenti dell’esercito nazionale in marcia verso Varsavia, e Stalin rifiutò di consentire agli alleati occidentali di utilizzare le basi aeree sovietiche per trasportare rifornimenti ai polacchi combattenti.

L’obbiettivo dei Sovietici, riuscito, era quello di eliminare o indebolire, tramite i Tedeschi, le forze politiche, militari e civili che, liberato il paese dai Nazisti, potevano rivendicare l’indipendenza della repubblica polacca e opporsi al controllo totale dei comunisti.

1.4. L’Armata Rossa nel 1945 occupa la Polonia e la consegna al partito comunista fino al 1989

L’Armata Rossa entrò a Varsavia il 17 gennaio 1945; la resistenza polacca, l’Ak, lo Stato clandestino erano stati decimati a Varsavia dalle forze naziste, a ciò che restava fu data la caccia dall’NKVD. Tra il 1944 e il 1947 circa 50.000 Polacchi, in gran parte membri della resistenza antinazista e dello Stato clandestino, furono arrestati e deportati [Lukowski, Zawadzki: 353-54].

Soldati dell’Armata Rossa si macchiarono di crimini spaventosi, in un paese, la Polonia, che si era battuto fino allo stremo contro i Tedeschi, in patria e a fianco degli Alleati in Francia, in Gran Bretagna, in Nord-Africa, in Italia. Secondo lo storico polacco Andrzej Chwalba: «Ci furono così tanti stupri e rapine che le autorità comuniste polacche prepararono una lettera allo stesso compagno Joseph Stalin, in cui protestavano contro i crimini commessi non solo a Cracovia dall’“esercito dei liberatori”. Tuttavia, la lettera non è stata inviata perché i suoi autori hanno iniziato a preoccuparsi per le proprie teste».

Joanna Ostrowska, Marcin Zaremba, docenti all’università di Varsavia, affermano: «La situazione in Slesia, come in Pomerania, può essere descritta – per il numero di stupri – come uno stato di calamità naturale. Fino alla fine di giugno 1945, solo a Dębska Kuźnia nel poviat di Opole, furono registrati 268 stupri. I soldati organizzavano anche raid contro le donne. Nel marzo del 1945, una dozzina di russi ubriachi fecero irruzione in una filanda di lino in una delle città vicino a Racibórz. Da lì gli aggressori rapirono una trentina di lavoratrici e le portarono nel vicino villaggio di Makowo. Come ha testimoniato una delle donne, “là i soldati ci hanno rinchiuse in una casa e, minacciate di fucilazione, ci hanno violentato. Sono stata violentata da quattro soldati”».2

I Sovietici, forti della presenza militare, imposero un nuovo governo controllato dal partito comunista polacco. Le elezioni politiche del 19 gennaio 1947, “garantite” dalle forze di occupazione sovietiche e caratterizzate da brogli, violenze, manipolazioni dei risultati diedero la maggioranza alla lista guidata dal partito comunista polacco. Oramai era stata instaurata una dittatura che sarebbe finita solo dopo 40 anni con il crollo del regime comunista.

1.5. Soldati polacchi nell’Armata Rossa

Nel dicembre 1943, il comandante dell’esercito nazionale polacco (Armia Krajowa), il generale Tadeusz Bór-Komorowski, organizzò un piano, l’operazione “Tempesta”, per un’insurrezione locale dietro le linee tedesche di supporto all’offensiva dell’Armata Rossa. Politicamente l’operazione aveva anche lo scopo, come sarebbe accaduto con l’insurrezione dell’agosto successivo, di marcare l’esistenza della Repubblica polacca e di rafforzare la posizione della Polonia nei negoziati del dopoguerra. "Tempesta" iniziò nel marzo-aprile 1944 in Volinia, dove l’esercito nazionale polacco contribuì a prendere la città di Kowel. Allo stesso tempo, altre unità dell’esercito nazionale sconfissero i Tedeschi nella regione di Nowogrodek. In luglio, le forze armate clandestine polacche attaccarono Vilna e contribuirono alla presa di Lvov e Lublino. I Sovietici cooperarono con l’esercito nazionale in queste battaglie, ma subito dopo i combattimenti, le unità NKVD disarmarono i Polacchi, costrinsero i soldati a integrarsi nei reparti dell’Armata Rossa o nei reparti polacchi comandati da comunisti e arrestarono gli ufficiali, molti dei quali furono giustiziati o imprigionati e deportati nei gulag [Wrobel II].

1.6. La fine del regime comunista e la riconquista della democrazia

Il 31 agosto 1980 una delegazione del governo comunista polacco guidata dal vice-primo ministro Myeczyslaw Jagielskie e i rappresentanti degli operai in sciopero dei cantieri navali di Danzica e Stettino guidati da Lech Walesa firmarono i protocolli di uno storico accordo in 21 punti. L’accordo oltre ad aspetti di carattere locale includeva la rivendicazione di un sindacato autonomo, indipendente e libero di operare in tutti i luoghi di lavoro, del diritto di sciopero, della libertà di parola e dell’accesso libero ai media e infine della garanzia che i lavoratori in sciopero e i loro dirigenti non sarebbero stati arrestati e imprigionati.

3. Edificio colpito da una granata da 2 tonnellate il 28 agosto, durante la rivolta di Varsavia

4. Abitanti di Danzica davanti al cancello principale del cantiere navale Lenin, durante lo sciopero, agosto 1980.

Fu questo un momento cruciale e significativo di una storia che vedrà la fine della più che quarantennale dittatura comunista e la rinascita di una Polonia libera e indipendente. Una storia che lo storico Norman Davies ha sintetizzato in tre fasi: 1) Nel 1980-1981 Solidarność – l’unica organizzazione indipendente del suo genere nella storia del blocco sovietico – lanciò una sfida senza precedenti al monopolio del partito comunista. 2) Nel 1981-83 i comunisti tentarono di riprendere il controllo del paese introducendo la legge marziale con la quale venivano soppresse tutte le attività pubbliche di Solidarność. 3) Dal 1983 al 1990 fallirono tutti i tentativi di restaurare un ordine comunista praticabile, per cui, alla fine, si ci si adattò a legalizzare Solidarność puntando alla stabilità attraverso una sorta di condivisione del potere. Il risultato fu l’opposto di quello previsto: il sistema comunista, non reggendo alla prova della crisi economica e del pluralismo, crollò definitivamente. [Davies: 482]

Il 12 settembre 1989 Tadeusz Mazowiecki, tra i fondatori di Solidarność, fu nominato capo del governo, diventando così il primo uomo politico non comunista a rivestire tale carica dopo la fine della guerra (anche se i comunisti mantennero il controllo di alcuni ministeri chiave) [Judt:750]. Il 9 dicembre 1990 Lech Wałęsa fu eletto presidente della repubblica. Sempre nel 1990 si sciolse il partito comunista e nel 1991 il Patto di Varsavia. Il 27 ottobre 1991 ebbero luogo le prime elezioni parlamentari libere. Le truppe sovietiche abbandonarono la Polonia nel 1993.

 

2. LA GUERRA PER LA MEMORIA IN POLONIA

Il paesaggio commemorativo, in gran parte urbano e scandito da monumenti, statue, targhe, tombe, lastre, è l’esito plastico della politica della memoria che ogni stato rivendica come propria istituzionale funzione volta a formare i cittadini indicando loro l’identità storica cui fare riferimento.

In pratica, però, lo stato non è l’unico agente che contribuisce alla definizione del paesaggio memoriale, giacché altri soggetti pretendono di avere voce in capitolo: consigli regionali e municipali, organizzazioni, associazioni di storici, musei, archivi, l’opinione pubblica in generale e anche, come vedremo, stati e governi esteri.

I momenti in cui i precedenti paesaggi commemorativi vengono sconvolti, sempre segnati da abbattimenti e nuove costruzioni, sono quelli che seguono una rivoluzione, un importante cambiamento di regime, una nuova dislocazione, più o meno spontanea, dell’opinione pubblica.

Anche il nuovo stato polacco, nato dal crollo della dittatura comunista, ha avocato a sé la funzione di definire nuovi scenari urbani della memoria. I cambiamenti nel sistema politico hanno comportato anche cambiamenti nella cultura storica; eventi e argomenti prima banditi o falsificati a causa della censura comunista ora potevano essere discussi apertamente. I periodi della storia polacca che erano stati trascurati potevano finalmente ottenere l’attenzione che avevano sempre meritato [Van Cant: 90].

Il che, come sempre, significava anche abbattere e riedificare: abbattere i simboli della memoria comunista, edificare i nuovi simboli della memoria democratica.

L’obiettivo generale del nuovo stato polacco era quello di costruire un paesaggio commemorativo ideologicamente coerente, che onorasse le vittime dei regimi totalitari nazista e comunista e perpetuasse la memoria di coloro che avevano combattuto per una Polonia indipendente contro gli occupanti nazisti e sovietici [Ochman: 478].

2.1. Abbattere

Dal 1989 al 1993 in Polonia sono stati rimossi o distrutti circa duemila monumenti e targhe commemorative [Van Cant: 92]. Un esempio è quello relativo allo smantellamento della statua dedicata a Feliks Dzerzhinskij nel novembre 1989 [Van Cant: 92; Cataluccio]. Scomparvero, tra le altre, anche le statue di Władysław Gomułka, segretario del partito comunista polacco dal 1956 al 1970 e di Georgi Dimitrov leader comunista bulgaro e segretario generale del Comintern.

Il fotografo Amos Chapple ha documentato con due serie di fotografie, scattate nel 2017 e nel 2020, il prima e il dopo la rimozione di alcuni monumenti dell’era comunista in Polonia. Then And Now: Soviet Monuments Disappear Across Poland

Varsavia, 17 novembre 1989, viene abbattuto il monumento a Feliks Dzerzhinskij

5. Varsavia, 17 novembre 1989, viene abbattuto il monumento a Feliks Dzerzhinskij.

Ma ancora venti anni dopo il 1989 restavano migliaia di strade e targhe che celebravano uomini ed eventi del passato regime comunista e ancora nel 2016 sopravvivevano 229 monumenti di guerra dedicati all’Armata Rossa [Ochman: 478].

Che cosa ha impedito che lo stato polacco distruggesse completamente i simboli del passato regime? Di quali mezzi disponeva il nuovo stato democratizzato per disegnare e popolare lo spazio pubblico? Quali pratiche e strategie discorsive sono state utilizzate per influenzare la percezione del passato e perché non sempre hanno avuto successo?

Ewa Ochman, docente all’Università di Manchester, ha scritto un saggio per rispondere a queste domande e per approfondire la questione più ampia delle caratteristiche specifiche del declino in uno stato di transizione delle memorie un tempo coltivate. La questione è se, e in che misura, analogamente a quanto è accaduto nelle democrazie mature, gli stati di transizione abbiano a che fare con una continua erosione del potere di indirizzare e dominare le pratiche commemorative pubbliche [Ochman: 478].

Nel 1989 vi erano in Polonia 476 monumenti che celebravano l’eroismo dei soldati dell’Armata Rossa, eretti dopo il 1945 dall’amministrazione militare sovietica e poi fatti propri dalle autorità comuniste polacche.

Ma ancora nel 1993 solo 130 di quei monumenti erano stati rimossi o distrutti. Il fatto è che non c’era un consenso unanime su quanto e che cosa del passato regime dovesse essere eliminato e non c’era accordo nel paese su quali monumenti dovessero senz’altro essere considerati mera propaganda comunista e sovietica. Nel 2007 un sondaggio rivelò che il 57% degli intervistati era contrario alla rimozione dei monumenti dedicati all’Armata Rossa, mentre il 36% era favorevole [Ochman: 480].

Le autorità centrali per tutta una fase dopo il 1989 avevano mostrato una certa passività, che può essere spiegata in tre modi. In primo luogo, nel 1989 la transizione a un regime democratico dovette essere negoziata con i comunisti, ciò che, naturalmente, rendeva piuttosto difficile fare i conti con il passato. In secondo luogo, il processo di avvicinamento all’Unione Europea e alla Nato implicava la necessità di non essere ostacolati da rapporti troppo conflittuali con la post-comunista Federazione Russa. Infine, le difficoltà economiche della transizione da una economia statalizzata ad una economia di mercato avevano in parte compromesso il livello di vita di alcune categorie sociali, il che aveva aperto la strada ad un ritorno di fiamma dei comunisti, seppure sotto altro nome e con altri programmi rispetto al passato.

In un contesto di transizione complessa il paesaggio appariva incerto e incoerente, perché mentre restavano i monumenti che ricordavano il contributo sovietico alla controversa “liberazione” della Polonia, altri ne venivano inaugurati che onoravano i combattenti polacchi anticomunisti.

Un tentativo dello stato di intervenire direttamente si ebbe nel 2000, quando il governo di coalizione, che includeva esponenti dell’ex opposizione anticomunista, presentò un disegno di legge che aveva lo scopo di rafforzare l’autorità dello stato sui siti nazionali della memoria; se il progetto fosse andato in porto lo stato avrebbe potuto imporre dal centro l’eliminazione dallo spazio pubblico dei simboli comunisti, monumenti, targhe, nomi di strade e piazze.

Il disegno di legge non fu poi approvato, anche perché diversi esponenti di centro-destra non erano d’accordo a rafforzare l’autorità centrale e preferivano affidare ai poteri locali le decisioni sui monumenti da abbattere e da edificare.

Vi era inoltre la difficoltà, in assenza di parametri condivisi, di identificare quei siti che avevano solo la funzione di celebrare il comunismo e l’Urss.

Ma nel 2015 vinse le elezioni il partito di destra PiS (Diritto e Giustizia) e nel 2016 venne approvata una legge che obbligava anche i poteri locali ad eliminare, entro un anno, dagli spazi pubblici i simboli e i monumenti che celebravano o ricordavano il comunismo.

2.2. Il Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca

6. Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca, Varsavia.

6. Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca, Varsavia.

Le vicende del Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca, eretto a Varsavia nel 1945 per commemorare la controversa “liberazione” della Polonia nel 1944-45, vengono ricostruite da Ewa Ochman con il proposito di verificare in concreto il rapporto e le tensioni tra lo stato e gli altri soggetti interessati alla costruzione di una memoria pubblica condivisa.

Il Monumento, che voleva commemorare i soldati, russi e polacchi, che nei ranghi dell’Armata Rossa erano caduti nella guerra contro i Nazisti, era stato inaugurato il 18 novembre 1945 in Piazza Wileński. Si trattava di calchi di gesso color bronzo, sostituiti nell’agosto 1947 da sculture di bronzo.

Il gruppo scultoreo, alto dieci metri, presentava in cima tre soldati sovietici rivolti verso ovest, uno teso nel lancio di una granata e due che imbracciano la pappasha, il mitra PPŠ-41 con caricatore a tamburo, una delle armi più usate nella Seconda guerra mondiale. Nella parte inferiore, posizionati diagonalmente su quattro piedistalli angolari, vi erano quattro soldati, due polacchi e due sovietici, con la testa china.

Le dedica, in russo e polacco, recitava: «Onore agli eroi dell’Armata Rossa, nostri fratelli d’armi, che diedero le loro vite per la libertà e l’indipendenza nella nazione polacca. Questo monumento è stato eretto dagli abitanti di Varsavia nel 1945».

Per quasi vent’anni il Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca in pratica non fu discusso, ma nel 2007 sembrò necessario spostarlo per far posto ad una nuova stazione della rete tranviaria. E nel 2011 il consiglio comunale di Varsavia decise di spostarlo in altro sito per poter completare la rete della metropolitana.

In entrambe le occasioni il PiS e i consiglieri di tale partito del comune di Varsavia, sostenuti da alcune associazioni di vittime della repressione comunista, proposero di smantellare e rimuovere il monumento in via definitiva [Ochman: 483].

La proposta del PiS scatenò un lungo dibattito, scandito da atti di vandalismo, petizioni e dimostrazioni a favore e contro la demolizione del Monumento.

Coloro che ne chiedevano la rimozione o la distruzione vedevano nell’opera solo un esempio fra i tanti della propaganda comunista, la quale, fra l’altro, celebrava la superiorità dei Sovietici sui Polacchi: i soldati ritratti sono cinque sovietici e due polacchi, e sovietici sono i tre collocati in posizione dominante e colti nello slancio della battaglia, mentre i due polacchi sono in basso e a testa china.

Si prese addirittura a scherzare sui quattro soldati del piano inferiore: sono a testa china perché si sono addormentati; di qui anche il nomignolo di “Quattro dormiglioni” che venne attribuito al complesso monumentale. In effetti, vennero coniate anche altre e più forti denominazioni – “Monumento ai saccheggiatori” o “Tomba del violentatore ignoto” – che alludevano al comportamento dei soldati dell’Armata Rossa in territorio polacco [Lowe: 36-38].

Secondo Lowe il nomignolo “Quattro dormiglioni”, risultava più radicale dell’apparenza beffarda, perché alludeva al momento in cui, nell’estate del 1944, in occasione dell’insurrezione di Varsavia, l’Armata Rossa si era fermata prima di attraversare la Vistola, permettendo così ai Tedeschi di annientare gli insorti e con questi anche ogni forza indipendente non comunista. Anche l’Armata Rossa, come i “Dormiglioni”, aveva dormito mentre si distruggeva Varsavia [Lowe: 38].

Ma il controverso monumento rimase al suo posto perché il consiglio municipale di Varsavia, in cui il PO (Piattaforma Civica) di centro-destra aveva la maggioranza, con il sostegno dei post-comunisti del SLD votò contro la rimozione.

I consiglieri del SLD argomentarono che il monumento non celebrava il comunismo o lo stalinismo, non commemorava “i comandanti, i marescialli” ma “i proverbiali Sasha e Vanya” che spesso “erano stati arruolati nell’Armata Rossa con la forza” e che avevano combattuto calzando “stivali bucati”.

La permanenza del monumento fu difesa anche da organizzazioni di ex combattenti di sinistra, in quanto rappresentava “un omaggio ai 600mila soldati morti in suolo polacco nella lotta contro l’invasore tedesco”, mentre i soldati sovietici “avevano combattuto ed erano morti non per una specifica ideologia ma unicamente per distruggere l’occupante”. Cosa altrettanto importante, il monumento era un omaggio alla memoria dei soldati polacchi che avevano combattuto a fianco dei coscritti dell’Armata Rossa [Ochman: 483].

Più in generale, il monumento venne difeso perché ormai parte integrante del paesaggio della città e perché commemorava un aspetto cruciale della storia recente della Polonia mentre la rimozione del monumento avrebbe significato cancellare una parte di quella storia.

La pubblica opinione contraria alla rimozione del Monumento alla fratellanza d'armi ha costituito una costante preoccupazione dell’Istituto della Memoria Nazionale (IPN), la principale istituzione statale polacca incaricata di preservare la memoria della lotta della nazione polacca contro gli occupanti nazisti e comunisti.

L’IPN attraverso pubblicazioni, mostre e iniziative educative è stata una delle forze trainanti della campagna di de-comunistizzazione, ma i suoi sforzi non hanno portato a un grande cambiamento nell’opinione pubblica. Nel 2012 un sondaggio commissionato dall’ufficio del sindaco di Varsavia rivelò che il 72% degli intervistati riteneva che il monumento dovesse rimanere in piazza Wileński mentre il 12% si era dichiarato a favore della rimozione.

E questo anche se, tra il 2007 e il 2009, l’IPN aveva inviato lettere alle autorità locali spiegando il “vero significato” dei monumenti comunisti e invitando i comuni a “ripulire” i loro paesaggi commemorativi. Questi appelli ebbero scarso seguito (solo due su 150 consigli avevano seguito le indicazioni dell’IPN).

Questi orientamenti, secondo l’IPN, potevano essere spiegati con la riluttanza dei consigli e degli elettori a sostenere i costi della de-comunistizzazione dello spazio pubblico, mentre sicuramente invitavano a raddoppiare gli sforzi educativi. Maciej Korkuć dell’Ufficio per la Pubblica Istruzione dell’IPN ha spiegato: «È responsabilità dello Stato proteggere la verità storica… La verità è determinata e, o la società si appropria di questa verità, perché adeguatamente educata in base ai fatti e nel rispetto della verità e della memoria, oppure no» [cit. in Ochman: 487].

Osserva in proposito Ewa Ochman che le difficoltà dell’IPN a trasmettere ai Polacchi il “vero significato” dei monumenti derivavano dalla riluttanza ad accettare che tale significato non rimane congelato nel tempo e che il popolo in continuazione ne ridefinisce i termini. L’IPN non doveva convincere i cittadini di Varsavia della realtà della repressione sovietica, ma del fatto che il Il Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca celebrasse quella repressione.

Così l’IPN, ha riorientato il proprio intervento educativo attribuendo maggiore importanza alla storia commemorativa del monumento: per iniziativa di chi il monumento è stato eretto, chi lo ha finanziato, chi lo ha inaugurato, per quali cerimonie ed eventi è stato utilizzato in epoca comunista, da quali altri edifici era circondato (il quartier generale dell’NKVD in Polonia, la sede dei Servizi segreti municipali).

Ma è chiaro che anche l’azione educativa meglio condotta ha dei limiti, per cui l’IPN intraprese delle azioni parallele per sollecitare una legislazione che obbligasse a ripulire gli spazi pubblici dai simboli comunisti.

7. Rimozione del <em>Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca</em>.

7. Rimozione del Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca.

Nel 2011 il Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca fu rimosso e portato in un laboratorio di restauro perché in piazza Wileński dovevano iniziare i lavori di completamento della metropolitana. Nell’autunno del 2014 i lavori per la metropolitana erano ormai conclusi, ma l’orientamento istituzionale stava cambiando e nel febbraio 2015 il consiglio comunale decise di lasciare il Monumento in deposito. Su questa decisione avevano influito certamente avvenimenti internazionali che avevano come protagonista negativo la Russia: l’annessione della Crimea e l’intervento militare nel Donbass ucraino; come spiegava il sindaco di Varsavia Hanna Gronkiewicz-Waltz: «Nell’attuale situazione storica non c’è la volontà di riportare indietro il Monumento» [cit. in Ochman: 488].

Il fatto è che la “situazione storica”, secondo i Polacchi, sembrava essere caratterizzata dal riemergere della tradizionale politica imperialistica russa che autorizzava il paragone tra l’intervento nel Donbass e l’invasione sovietica della Polonia nel settembre 1939 e poi l’occupazione del 1944-45. Di qui la riconsiderazione del significato dei monumenti e la rivisitazione del passato recente secondo la linea politica, storica, ideologica che considerava giusto che in Polonia i segni e i residui simbolici del dominio sovietico dovessero essere completamente rimossi: lo spazio pubblico doveva essere desovietizzato, decomunistizzato.

La nuova congiuntura autorizzò i le autorità di Varsavia ad interpretare in modo assai restrittivo l’accordo bilaterale Polonia-Russia del 1994 secondo il quale i due paesi avrebbero mantenuto e protetto nel proprio territorio i rispettivi monumenti alla memoria. Ci si mise anche d’accordo su una procedura che prevedeva di coinvolgere l’ambasciata sovietica anche quando a decidere erano i consigli municipali. La decisione di non ricollocare il Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca nel luogo d’origine e questo senza alcuna consultazione, suscitò le proteste ufficiali della Russia, alle quali i Polacchi risposero con una dichiarazione in cui si spiegava che l’accordo polacco-russo del 1994 si applicava solo alle tombe di guerra e che i consigli locali stavano agendo entro i parametri della legislazione polacca esistente [Ochman: 489].

Dalle vicende del Monumento alla fratellanza d’armi sovietico-polacca di Varsavia è possibile trarre alcune indicazioni.

  1. In una democrazia o in uno stato in transizione democratica lo stato non riesce ad essere l’unica autorità in grado di imporre una “verità storica” ritenuta tale da tutti e senza discussioni.
  2. Altri soggetti sfidano tale esclusivo ruolo dello stato e ne erodono dal basso l’autorità e la capacità di persuasione: associazioni, autorità locali, gruppi di pressione, l’opinione pubblica.
  3. I monumenti, come tutti i reperti della memoria storica, sono in effetti portatori di significati ambigui che possono essere trasformati e rivissuti secondo diverse modalità di percezione.
  4. Resta la domanda se uno stato democratico possa aspirare attraverso la legislazione a definire una “verità storica” buona per tutti e a comminare sanzioni per coloro i quali non accettano tale verità. Insomma: le questioni storiche possono essere definite nei tribunali?

2.3. Costruire

Monumento a Roman Dmowski a Varsavia.

8. Monumento a Roman Dmowski a Varsavia.

Gli organismi preposti all’allestimento del paesaggio memoriale non possono solo demolire, devono anche ripopolare gli spazi vuoti; in Polonia dal 1989 al 2007 sono stati eretti quasi ottanta nuovi monumenti solo a Varsavia, il 90% dei quali dedicati alla storia nazionale, politica, militare, culturale. Solo due monumenti sono stati dedicati a soggetti che nulla avevano a che fare con la storia: il Monumento allo studente e il Monumento al cane felice. [Van Cant: 94].

Il 30% dei nuovi monumenti, 23 su 77, è dedicato ad eventi, gruppi, personaggi della Seconda guerra mondiale che il regime comunista per quaranta anni aveva trascurato: l’Esercito Nazionale (AK), l’insurrezione di Varsavia dell’estate 1944, lo stato clandestino, gli insegnanti del servizio educativo clandestino, i soldati polacchi che avevano combattuto contro i Tedeschi fuori della Polonia, la battaglia di Montecassino in cui si distinsero reparti polacchi, il generale Stefan Rowecki primo comandante dell’Esercito Nazionale, Stefan Starzyński sindaco prima e durante l’assedio di Varsavia. Alla I guerra mondiale sono dedicati solo cinque monumenti.

Monumento a Janusz Korczak a Varsavia.

9. Monumento a Janusz Korczak a Varsavia.

Per il periodo precedente la Seconda guerra mondiale tre monumenti sono dedicati a Józef Piłsudski, eroe dell’indipendenza polacca, ma cancellato durante il regime comunista perché vincitore della guerra contro i Boscevichi nel 1920 e perché a capo, per un periodo, di un regime autoritario. Un memoriale è stato dedicato a padre Ignacy Skorupka, cappellano dell’esercito polacco, morto durante la guerra del 1920 contro i Bolscevichi.

Un monumento è stato eretto anche in memoria di Roman Dmowski per ricordarne i meriti nella lotta per l’indipendenza; scelta questa assai controversa e avversata da molti a causa del suo sciovinismo, razzismo e antisemitismo.

Colpisce il fatto che agli Ebrei morti nei campi polacchi o fucilati lungo le fosse comuni non sia stata dedicata quasi alcuna attenzione. A Varsavia vi è un solo monumento, il Memoriale della rimembranza del 1992, per di più collocato in posizione alquanto periferica e di aspetto così dimesso da essere facilmente trascurato. Si potrebbe osservare a contrario che a Janusz Korczak (Henryk Goldszmit) sono state dedicate tre statue, ma tali riconoscimenti più che alla sua origine ebraica erano indirizzati al suo essere stato un grande scrittore, pedagogista, medico polacco.

Note

1. The New Russian Poets 1953-1966. An Anthology, Selected, Edited and Translated by George Reavey, October House Inc., New York 1966. Cit. parzialmente in Anne Applebaum, GULAG. Storia dei campi di concentramento sovietici, Mondadori, Milano 2004, p. 575.

2. Presso i Polacchi il ricordo delle violenze del 1945 si sommava al ricordo delle violenze subite dopo l’invasione del 17 settembre 1939, in particolare quelle inflitte ai deportati in Unione Sovietica e tra questi alle donne vittime di violenze sessuali nei lager e negli insediamenti speciali in Siberia e Kazakistan. Sulle violenze contro le donne (aggressione e sfruttamento sessuale in particolare), sul dolore del ricordo e sulle difficoltà della sua espressione in un contesto pubblico, si veda il saggio di Katherine R. Jolluck citato in blibliografia. Questo saggio può essere anche considerato una sorta di guida alla interpretazione e comprensione delle testimonianze delle donne deportate e vittime di violenza sessuale nei lager.

Bibliografia

Amos Chapple, Then And Now: Soviet Monuments Disappear Across Poland

Norman Davies, God’s Playground. A History of Poland, Vol. 2, 1795 to the Present, Columbia University Press, New York 2005.

Katherine R. Jolluck, The Nation’s Pain and Women’s Shame: Polish Women and Wartime Violence, in Nancy M. Wingfield and Maria Bucur (Edited by), Gender and War in Twentieth-Century Eastern Europe, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 2006.

Keith Lowe, Prigionieri della storia, Utet, Milano 2021. In particolare, il cap. n. 2.

Jerzy Lukowski e Hubert Zawadzki, A Concise History of Poland, Cambridge University Press, Cambridge 2019.

Ewa Ochman, Spaces of Nationhood and Contested Soviet War Monuments in Poland: The Warsaw “Monument to the Brotherhood in Arms”, in Berber Bevernage, Nico Wouters (Edited by) The Palgrave Handbook of State-Sponsored History After 1945, (pp. 477-493), Palgrave Macmillan, London 2018.

Timothy Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2011.

Timothy Snyder, Terra nera. L’Olocausto fra storia e presente, Rizzoli, Milano 2015.

Katrin Van Cant, Historical Memory in Post-Communist Poland: Warsaw’s Monuments after 1989, in «Studies in Slavic Cultures», Jan 1, 2009.

Piotr Wrobel, The Devil’s Playground: Poland in World War II, The Canadian Foundation for Polish Studies of the Polish Institute of Arts &Sciences. Price-Patterson Ltd.

 

Fonti delle immagini

imm 1 imm 2 imm 3 imm 4 imm 5
imm 6 imm 7 imm 8 imm 9