di Vincenzo Medde

Casa di pastori

Regali sardi 2016.
Palazzotti di legno
colorato per arredare

1. La miseria vista e raccontata

«Oggi, in una regione che rientra a pieno titolo nella parte più opulenta e sviluppata del mondo, sono difficilmente immaginabili le condizioni di assoluta povertà, di arretratezza e di fame dell’Isola, non solo nel periodo bellico e immediatamente successivo, ma per tutti gli anni Cinquanta. Per oltre un decennio, una miseria corale avvolge città e campagna, zone dell’interno e località marittime». (Accardo, 17; ma l’espressione «miseria corale» è ripresa da Mannironi e Polano, 353)

Tale situazione emergeva, con l’impatto del racconto delle situazioni concrete, dall’indagine parlamentare sulla miseria in Italia, che in Sardegna era stata condotta nel dicembre del 1952 da Salvatore Mannironi (DC) e Luigi Polano (PCI) tramite sopralluoghi diretti e interviste alle autorità locali.

Secondo la narrazione dei due parlamentari, era impressionante in primo luogo il numero di bambini malnutriti perché si alimentavano solo con pane e verdura; su dieci bambini di tre famiglie di un paese del Nuorese, ad esempio, tre mangiavano carne una volta per le festività di Pasqua e di Natale, quattro bevevano latte la domenica, sei mangiavano regolarmente una zuppa di verdura, pane e granturco. Nello stesso paese la scuole erano frequentate soprattutto da femmine, perché i maschi erano impegnati ad aiutare i genitori al lavoro. Gli alunni delle cinque classi elementari (29 in prima, 16 in seconda, 18 in terza, 10 in quarta, 7 in quinta) erano ospitati in un’unica aula, in effetti una stanza di una casa di abitazione; il 70% risultava privo di scarpe. (Mannironi e Polano, 357)

Casa di pastori

Casa di pastori

Nei paesi del Nuorese un abitante su tre o anche su quattro dormiva in un letto normale, mentre gli altri dovevano trascorrere la notte su stuoie di frasche o sulla nuda terra battuta. Nella periferia di Cagliari e Sassari l’indice di inabitabilità si aggirava attorno al 60-70%, mentre a Olbia (dove un nucleo famigliare di otto persone era considerato normale) poteva arrivare al 93%. In tali abitazioni una stanza poteva arrivare ad ospitare sei o sette persone e talvolta anche dieci.

A Bosa su 8000 abitanti vi erano 6000 nullatenenti accertati, che avrebbero meritato di ricevere il sussidio di assistenza. Nell’elenco dei poveri gli iscritti erano 500. L’indice di inabitabilità in alcune zone della città alta raggiungeva il 90% dei vani. Gli alunni erano 980 distribuiti in 14 aule, ma 7 erano di fatto inagibili; il 50% non aveva vestiti e scarpe che consentissero di uscir di casa nei giorni di freddo e pioggia. La maggior parte interrompeva la frequenza finita la terza classe.

A Iglesias l’impressionante numero di vecchi malati, inabili e privi di pensione o con pensioni minime, rendeva il problema della previdenza sociale veramente urgente. Il caso di un vecchio morente, assistito in un lurido “sottano” dalla consorte quasi ottantenne, che in pratica vivevano della carità del vicinato, poteva riprodursi in serie, con qualche variante, per diecine di episodi. «Quando si è visto in un autentico sotterraneo un capo-famiglia, A.V., rimasto disoccupato subito dopo il matrimonio, coabitante con quattro figli da uno a cinque anni, che si cibava da due settimane, egli e i suoi piccoli e la consorte ammalata, esclusivamente di ravanelli, la Delegazione parlamentare ha avuto un attimo di perplessità. Eppure le autorità locali e lo stesso commissario prefettizio che l’accompagnavano, hanno affermato non trattarsi di una troppo sorprendente eccezione». (Mannironi e Polano, 364)

Mannironi e Polano tra le cause della miseria mettevano in evidenza la disoccupazione, l’assenza di specializzazione dei lavoratori sardi, la scarsa o nulla conoscenza dei diritti previsti dai contratti e dalla previdenza sociale, ma anche una mancanza di volontà di migliorare la propria esistenza, cose tutte che favorivano l’accettazione di salari e condizioni di lavoro ai margini o fuori dei contratti legali. Nella zona di Tempio i lavoratori del sughero contrattavano direttamente e al ribasso salari, orari e condizioni di lavoro, restituivano anzi ai padroni un eventuale di più che dovesse essere stato versato per il rispetto formale dei contratti. Gli stessi sindacati avevano scarsi margini di manovra perché non sostenuti dai lavoratori, specie se donne, per la paura di perdere il lavoro per quanto misero potesse essere.

Così, quale auspicio programmatico, i due parlamentari sardi sollecitavano «un complesso di provvidenze a carattere straordinario, da assolversi con mezzi di carattere straordinario», ma intanto occorreva potenziare subito l’assistenza e la previdenza sociale, intervenire sul problema dell’occupazione, migliorare la situazione abitativa, lottare contro l’analfabetismo.

Mannironi e Polano non volevano però nascondersi che molto poteva dipendere da «una estesa opera di rieducazione sociale», perché diversamente da tante altre parti del Paese «il misero sardo non sente i propri diritti, si adatta per forza d’inerzia ad una condizione le cui origini gli sfuggono ma che egli accetta supinamente nelle sue pratiche conseguenze». (Mannironi e Polano, 368)

2. La miseria calcolata

L’approccio – ancorato a valori di media – di economisti, demografi, statistici, certo più asettico e non coinvolto in una indagine a contatto diretto con la miseria, può anche non cogliere la drammaticità di singole situazioni e tracciare un quadro generale – medio appunto – almeno in parte diverso rispetto a quello ricostruito dai parlamentari Mannironi e Polano.

Il settore delle abitazioni, ad esempio, era certo carente, ma non così drammatico come poteva apparire alla Commissione d’inchiesta sulla miseria in Sardegna. Nel 1951 l’Italia contava 47.515.537 abitanti che occupavano 35.062.611 stanze. Ne conseguiva un indice di affollamento pari a 1,36 abitanti per vano. Le differenze fra regione e regione erano però notevoli, in particolare fra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Infatti, mentre per le prime l’indice di affollamento era compreso fra il minimo dello 0,93 riferito alla Liguria e il massimo dell’1,27 del Veneto, fra le regioni meridionali si andava da un minimo dell’1,39 in Abruzzi e Molise sino all’indice più elevato della Basilicata con 2,14 abitanti per vano.

Complessivamente le regioni meridionali (Lazio compreso) avevano un indice di affollamento superiore a quello medio nazionale (1,78) mentre quelle del Centro-Nord vantavano un indice medio pari a 1,13 abitanti per vano.

Nello stesso anno 1951 la Sardegna occupava una posizione intermedia fra le regioni italiane e infatti 1.276.023 abitanti occupavano 924.119 stanze, con un conseguente indice di affollamento pari a 1,38. Distinguendo i dati per provincia si poteva constatare che Sassari aveva un indice di 1,73, Nuoro 1,33, e Cagliari 1,26.

I valori massimi, cioè quelli superiori a 1,80 abitanti per vano e fino a 2,91 (valore massimo assoluto espresso dal comune di Olmedo in provincia di Sassari), si riscontravano nei comuni di Sassari e del Sassarese in genere, ad Alghero, a Olbia e in molti comuni della parte nord-orientale dell’Isola, compresi alcuni del tratto più settentrionale della provincia di Nuoro (S. Teodoro, Budoni, Posada, Lodè, Onanì, dove i valori superavano sempre i 2 abitanti per vano). Anche nella parte meridionale vi era una fascia di comuni che registravano valori di affollamento elevati, i territori dei comuni minerari di Iglesias e soprattutto di Carbonia (1,94) e quelli agro-pastorali di S. Giovanni Suergiu, Giba, Perdaxius, Teulada, Domus de Maria, ecc. (Pracchi e Terrosu Asole, 215-16)

Una situazione di maggiore ritardo, rispetto sia all’intero paese sia al Mezzogiorno, si registrava invece nel settore dell’edilizia scolastica. Nell’anno scolastico 1950/51, infatti, l’indice di affollamento delle classi per aula nella scuola elementare era pari a 1,9 – mentre nel Sud era di 1,7 e nell’intera penisola 1,6. Occorre osservare che tale situazione era in realtà ancora peggiore se si tiene conto della numerosità media delle classi: essa era, nello stesso anno scolastico, di 29 alunni per classe in Sardegna, di 24,82 nel Mezzogiorno e di 21,43 nell’intero paese. In termini di rapporto alunni/aula il divario sopra delineato risulta forse più evidente: nell’Isola in media 56,16 alunni, nel Sud 43,48 e nell’intero paese 35,25. (Gobbato, 667)

Quando in casa l’acqua non c’era

Quando l’acqua in casa non c’era

Per quel che riguarda l’approvvigionamento idrico la situazione della Sardegna, pur denotando anche in questo campo un certo ritardo sul livello nazionale, poteva essere definita comunque alquanto migliore di quella del Mezzogiorno. Nel 1951, infatti, i centri abitati forniti di acquedotto con acqua disponibile sufficiente (cioè tale da assicurare per tutto l’anno la copertura deI normale fabbisogno della popolazione) erano pari, in Sardegna al 38,3% del totale, al 33,33% nel Mezzogiorno, ma al 46,9% a livello nazionale.

Per quanto riguarda le fognature, i centri abitati dotati di una rete totale di fogne erano, sul totale dei centri abitati, il 16,9% in Sardegna, il 19,0% nel Mezzogiorno e il 21,9% nell’intero paese.

Nel campo delle infrastrutture sanitarie si registrava ancora una situazione di grave ritardo dell’Isola nei confronti della nazione, anche se inferiore a quello corrispondente nel Mezzogiorno. Nel 1950, infatti, la Sardegna poteva contare su 4,32 posti-letto per 1.000 abitanti (nel complesso degli istituti di cura), contro i 3,98 del Mezzogiorno e il 7,8 dell’Italia. (Gobbato, 665-69)

I dati del censimento del 1951 permettono, per la prima volta, di conoscere il numero dei bagni per abitazione. In quell’anno in Sardegna, su un totale di 281.907, erano dotate di bagno solo 15.219 case pari al 5,4%. La media nazionale era del 10,4%, ma quella del Meridione si fermava al 4,1%. Vero è che i 2/3 del totale erano concentrate a Cagliari e Carbonia, che in 322 comuni solo lo 0,96% delle case aveva il bagno e che in 114 nessuna casa disponeva di tale servizio.

Abitazioni Bagni % bagni su
abitazioni
Cagliari 146.202 11.503 7,9
Nuoro 56.500 831 1,5
Sassari 79.205 2.885 3,6
Sardegna 281.907 15.219 5,4
Meridione 4.192.337 171.911 4,1
Italia 11.662.765 1.215.666 10,4
(Pracchi e Terrosu Asole, 221-22)

Nel 1951 solo il 31,71% delle abitazioni in Sardegna era dotato di impianto di acqua potabile interno o esterno (rubinetti collocati all’esterno dell’abitazione); quando nel Meridione erano il 32,10% e in Italia il 44,17. Vale la pena aggiungere che in più del 30% dei comuni sardi neppure una casa su cento era dotata di impianto d’acqua.

Neppure i dati sulla istruzione migliorano l’immagine della Sardegna. Sulla popolazione residente di oltre 6 anni (1.096.343) gli analfabeti erano 241.226, con una percentuale sulla popolazione del 22 per cento, quando la media nazionale era del 12,89 e quella meridionale del 24. Se poi agli analfabeti si aggiungono coloro che, pur dichiarandosi alfabeti, erano privi di titolo di studio (300.045) si raggiungeva la cifra di 541.271 unità, con una percentuale sulla popolazione di oltre 6 anni del 49,37 per cento. (Pirastu, 216).

3. I Sardi nei primi anni Cinquanta quanto erano (de)nutriti?

«La soglia utilizzata per stimare la sottonutrizione non è una soglia sotto la quale si muore di fame (condizione, questa, che gli anglosassoni chiamano starvation), ma è piuttosto una soglia al di sotto della quale l’organismo non dispone dell’energia sufficiente per lavorare e condurre le altre attività quotidiane, quelle legate al contesto in cui vive, senza incorrere in un deficit energetico e dunque subire, a lungo andare, conseguenze negative sulla salute». (Vecchi, 22-23)

Già i parlamentari Mannironi e Polano, in occasione della citata inchiesta nazionale sulla miseria in Italia, avevano rilevato: «Una generale sottoalimentazione caratterizza la miseria delle genti dell’interno. Una sottoalimentazione che in taluni casi arriva al limite dell’incredibile è del resto documentabile dalle stesse dichiarazioni delle autorità comunali d’assistenza interrogate direttamente … impressionante è il numero di bambini che sono malnutriti o non si cibano altro che di pane e verdura» (Mannironi e Polano, 350-1).

Un’indagine dell’Ufficio del lavoro di Cagliari ha calcolato l’incidenza delle spese per l’alimentazione sul salario, al fine di stimare quanto restasse per le altre necessità della vita quotidiana: l’alimentazione assorbiva dal 50,6% al 65% del salario degli operai specializzati a Cagliari e dal 59,0 al 69,7% a Sassari; dal 57,8% al 71,0% a Cagliari e dal 68,5% al 77,1% a Sassari del salario degli operai qualificati; dal 65,0% al 77,6% a Cagliari e dal 75,0% all’88% a Sassari del salario del manovale. (Arcari, 679-80). Insomma, quel che si portava a casa bastava quasi solo per mangiare e non certo a sazietà, mentre poco o nulla restava per gli altri bisogni anche vitali.

Contadino al lavoro

Contadino al lavoro

Più grave ancora la situazione nell’agricoltura. A Cagliari le spese per l’alimentazione assorbivano dal 98,3% al 103,2% del salario agricolo (a seconda delle zone) e a Sassari il 118,1%. Il salariato agricolo non avrebbe potuto garantire i principi nutritivi e le calorie necessarie nemmeno se fosse stato rispettato il salario stabilito dal contratto di lavoro collettivo, mentre, purtroppo, questo salario in molte zone non era affatto rispettato. Anche da qui nasceva quella fuga dall’agricoltura che costituiva uno degli aspetti tipici della crisi economica isolana e uno dei fattori della disoccupazione.

È chiaro che tali salari non consentivano un livello alimentare adeguato, di fatto i Sardi erano sottonutriti, come diversi studi sui bilanci famigliari documentavano. La razione media giornaliera di calorie dei pescatori di Sassari era pari a 2.848, mentre quella dei pescatori napoletani raggiungeva le 2.988 calorie; i pescatori di Oristano dovevano accontentarsi di 2.600 calorie e gli artigiani di Cagliari di 2.325; i contadini marchigiani stavano decisamente meglio con 3.333 calorie giornaliere. (Arcari, 678-79)

I soggetti interrogati in occasione dell’Inchiesta sulla disoccupazione in Italia offrivano un quadro più vivo e più drammatico di quanto i numeri non riuscissero ad esprimere. Molti affermavano di non potere mangiare che una sola volta al giorno, e solo pane, «pane e saliva», «pane e ravazzetti», «pane e pomodori». La minestra era un lusso raro: «Abbiamo cotto un po’ di minestra nell’acqua e con qualche cucchiaio d’olio; era una mezza festa in casa». La carne la si mangiava quando si veniva ricoverati in ospedale.

È chiaro che tali livelli di sottonutrizione, dato l’insufficiente apporto energetico, condizionavano il rendimento sul lavoro, alimentando così il pregiudizio negativo sui Sardi che lavorano meno dei continentali. Un muratore così si esprimeva: «Gli operai continentali con i quali ho avuto occasione di lavorare hanno sempre reso meno di noi locali. Questo lo ha potuto constatare anche il capo cantiere. Però mangiavano meglio e molto più di noi». E un ingegnere delle miniere di ferro della Nurra: «il materiale umano locale ottimo ma molto denutrito». (Arcari, 677-682)

Le indagini condotte da vari studiosi portavano tutte alla conclusione che i bisogni alimentari delle famiglie sarde non fossero sufficientemente appagati. (Arcari, 678)

4. Che fare?

Che fare dunque, si era chiesta la Commissione parlamentare che aveva indagato sulla miseria in Sardegna, e aveva auspicato un «un complesso di provvidenze a carattere strordinario». Essendo difficile rompere la catena ferrea che tiene insieme i fenomeni economici, anche la Arcari (per la Commissione parlamentare sulla disoccupazione) collocava al di fuori del sistema economico e sociale sardo gli elementi dinamici in grado di innescare un’inversione di tendenza: «la Sardegna stanca e trafelata» per riprendersi aveva bisogno del soccorso di un impulso esterno, un intervento su larga scala mirato alla trasformazione il più possibile contemporanea dei vari settori di attività, dato che sporadici e disorganici interventi non sarebbero stati sufficienti a determinare un cambiamento sostanziale della situazione. (Arcari, 684, 690, 732)

Ma, in attesa che tali interventi su larga scala venissero progettati e realizzati, la miseria e la disoccupazione costringeva molti Sardi a cercare lavoro e condizioni di esistenza migliori anche al di fuori dell’Isola, e l’emigrazione, dai primi anni Cinquanta, aveva ripreso a svuotare la Sardegna. Tra il 1953 e il 1959 la crisi delle miniere di carbone, piombo e zinco costrinse ad emigrare gli abitanti del Sulcis-Iglesiente; nei primi anni Sessanta si aggiunsero i contadini e i braccianti in fuga dalle campagne; nella seconda metà degli anni Sessanta emigrarono anche i pastori e gli abitanti delle zone interne.

Il picco venne raggiunto nel 1962, ma tra il 1955 e il 1971 gli espatriati furono 400.982, un terzo degli abitanti; 307.757 verso le regioni italiane centro-settentrionali, 87.970 verso paesi europei, 5.253 verso paesi extraeuropei. Se si aggiungono gli emigrati negli anni 1951-1954, 60.000 circa, dal 1951 al 1971 durante vent’anni lasciarono l’Isola 461.000 Sardi. (Rudas, 24-25)

Emigrati dalla Sardegna 1876-2014

Emigrati dalla Sardegna 1876-2014

Bibliografia

Aldo Accardo (a cura di), L’isola della rinascita. Cinquant’anni di autonomia della Regione Sardegna, Laterza, Bari 1998.

Paola Maria Arcari, Sardegna, in Commissione parlamentare d’inchiesta sulla disoccupazione. Monografie regionali, vol. III, t. 4, Roma 1953.

Onorio Gobbato, Sardegna, in Vera Cao-Pinna (a cura di ), Le regioni del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1979.

Salvatore Mannironi e Luigi Polano, Aspetti della miseria in Sardegna, in Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia, vol. VII, La miseria in alcune zone depresse, Roma 1953.

Luigi Pirastu, Sviluppo economico e classi sociali in Sardegna dal 1951 al 1971, in Economia e società in Sardegna. Scritti discorsi 1943-1981, Edes, Cagliari 1989.

Roberto Pracchi e Angela Terrosu Asole (a cura di), Atlante della Sardegna II, Edizioni Kappa, Roma 1980.

Nereide Rudas, L’emigrazione sarda, Regione Autonoma della Sardegna - Centro Studi Emigrazione, Roma 1974

Gianfranco Sabattini, Intervento straordinario e sviluppo economico, in A. Boscolo - L. Bulferetti - L. Del Piano - G. Sabattini, Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai piani di rinascita, FrancoAngeli, Milano 1991.

Giovanni Vecchi, In ricchezza e povertà. Il benessere degli Italiani dall’Unità ad oggi, il Mulino, Bologna 2011.

Immagini

– Palazzotti di legno colorato: Volponi Legnami - Cagliari. Facebook.com/Palazzotti in Legno
– Casa di pastori e Contadino al lavoro: F. Manconi e G. Angioni (a cura di), Le opere e i giorni. Contadini e pastori nella Sardegna tradizionale, Silvana Editoriale 1982, pp. 47, 107.
– Quando in casa l’acqua non c’era: fotogramma del film The Sardinian project prodotto nel 1948 dalla Shell Petroleum Company in collaborazione con l’ERLAAS. Il cameramen era Wolfgang Suschitzsky.
– Grafico emigrazione: Silvia Aru, La fuga dalla terra. L’emigrazione sarda tra continuità storiche e geografiche, in: L. Marrocu, F. Bachis, V. Deplano (a cura di), La Sardegna contemporanea, Donzelli editore, Roma 2015, p. 60.