di Gillo Dorfles
Nei primi anni ’80 – su iniziativa dell'A.R.P. Studio di Oristano e su disegni di artisti ed architetti italiani contemporanei – tessitrici di Zeddiani realizzarono una serie di 24 tappeti poi proposti al pubblico in una mostra e in una pubblicazione dell'Istituto Superiore Regionale Etnografico taccas. nuovi tappeti sardi, Nuoro 1987. La pubblicazione conteneva le riproduzioni dei disegni dei 24 artisti e dei tappeti realizzati, precedute da scritti di G. Lilliu, G. Dorfles, A.R.P. Studio, H. Klotz, A. Mendini; completavano il volume 24 brevi note biografiche degli artisti. Si ripubblicano qui il testo di Gillo Dorfles e le immagini di sette dei 24 tappeti prodotti ed esposti (cliccare sulla miniatura). V. Medde
Il fatto di considerare, a tutti gli effetti, il tappeto come un’opera d’arte ha una tradizione antichissima: nessuno – o ben pochi – ormai ritengono opportuno, come accadeva ancora qualche tempo fa, di fare una distinzione tra valore estetico d’un antico tappeto persiano, d’un tessuto copto o incaico, e quello d’una coeva scultura, ceramica o pittura. Il pregiudizio che, per qualche tempo, fece sì che si considerasse «minore» l’arte cosiddetta «applicata» e decorativa, ha fatto il suo tempo.
Oggi qualsiasi documento circa l’attività creativa dell’uomo che abbia in sé le caratteristiche dell’originalità, della novità, dell’espressività autonoma, deve essere considerato alla stessa stregua di quelle opere d’arte che di solito hanno la precedenza nei testi e nei trattati storici. E, del resto, che così debba essere lo prova la presenza in ogni tempo di opere basate sull’uso di materiali ceramici, lignei e tessili, degni di essere considerati come esempi, anche eccelsi, dell’attività creativa d’un determinato periodo storico.
Per quanto, poi, concerne il settore specifico dei tessuti si ponga soltanto mente a opere famose come gli arazzi di Aubusson e Beauvais, i gobelins settecenteschi francesi, belgi, tedeschi e, in generale, i tappeti persiani, cinesi, turchi, anatolici, ecc. e gli antichissimi relitti – spesso ridotti a brevi lacerti, ma ancora carichi di potenza espressiva – di alcuni tessuti provenienti dall’Antico Egitto, dalla Cina, dalle Civiltà Andine, ecc. Se, poi, ci avviciniamo ai nostri giorni gli esempi si moltiplicano, con l’unico aspetto negativo che – nel tappeto come in gran parte dell’artigianato – esiste spesso un contrasto tra il semplice valore «tecnico» del prodotto (che può anche essere ottimo per la sopravvivenza di abili artigiani) e quello che potremmo definire «valore innovativo»: ossia capacità dell’artigianato di rinnovare le sue forme e i suoi contenuti. Accade infatti molto spesso, anzi il più delle volte, che tale artigianato ripeta stancamente e senza nessuna capacità innovativa vecchi schemi ormai desueti che non sono altro che una tarda riesumazione di quelle che furono le antiche e gloriose invenzioni di tempi passati. Ed è qui, infatti, che si annida il vero pericolo d’un «genere» come quello del «tappeto artistico»: di ripetere a sazietà moduli vieti senza avere il coraggio o la possibilità di crearne di nuovi ed inediti.
Se, abbandonando ogni tentativo di ricostruzione storica del tappeto, ci rifacciamo ai nostri giorni, sarà facile osservare, come, già a partire dall’inizio di questo secolo, i grandi movimenti delle avanguardie storiche abbiano spesso affrontato il problema d’un rinnovamento della creazione artistica in questo settore. Maestri di movimenti come il cubismo, il futurismo, il surrealismo hanno spesso concesso i loro disegni e le loro pitture perché fossero trasposti su arazzi e tappeti e questo è avvenuto anche per molti dei maggiori pittori della metà del secolo: da Mirò a Calder, da Picasso a Soulage, da Capogrossi a Savinio.
Ma, a questo punto, mi sembra opportuno fare almeno un brevissimo cenno a quel movimento che, in Italia, ebbe il suo massimo sviluppo e che costituì effettivamente il vero e proprio ingresso del nostro Paese nell’area delle avanguardie storiche europee: ossia il Futurismo. È proprio da parte di alcuni maestri di questo movimento – Balla, Severini, Prampolini – che si verificò una pronta adesione all’impiego degli schemi futuristi trasposti su tessuti e tappeti. La cosa non deve sorprendere se si tiene conto che, soprattutto nella fase più matura del movimento, la scomparsa d’ogni figurazione e il verificarsi d’una pittura essenzialmente astratta si prestava molto bene alla trasposizione sui tessuti.
Molti tappeti futuristi, tuttavia, appartengono ad epoche diverse e spesso posteriori a quelle dei dipinti da cui furono tratti: se è vero che, già tra il 1910 e il 1930 si ebbe la produzione di una serie nutrita di tappeti a Palermo (ad opera di Pippo Rizzo eseguiti dalla ditta Mito), tappeti che spesso «arieggiano» lo stile del primo Balla e quello di Prampolini e se, nel 1925, alla mostra delle «arti decorative e industriali» di Parigi, furono presentati alcuni tappeti futuristi, ad opera di Prampolini, come è facile intendere, tali operazioni avvennero tutte «in ritardo» rispetto agli anni eroici del 1910-1914 quando si formò e si articolò la vera e propria stagione del primo futurismo italiano. Lo stesso fenomeno si può segnalare a proposito del «laboratorio della casa d’arte futurista Depero», dove vennero prodotti arazzi, tappeti e altri tessuti (oggi conservati in quel museo) da parte di Depero a Rovereto.
In definitiva – anche tenendo conto che la maggior parte di questi prodotti è andata perduta nel corso degli anni – riteniamo che spetti soprattutto a Prampolini, un artista dunque già appartenente alla «seconda ondata» della famiglia futurista, il merito d’avere più a lungo e con più impegno seguito e propagandato l’avvento del tappeto di «stile futurista».
A questo punto, tuttavia, voglio precisare come non è mia intenzione soffermarmi più a lungo sopra una cronistoria del tappeto italiano moderno che richiederebbe ben altra documentazione; mentre mi preme di evidenziare e giustificare l’iniziativa estremamente positiva sviluppatasi attorno ad una proposta dell’A.R.P. Studio e Peter Pfeiffer, volta alla realizzazione di una serie di tappeti, tutti su disegni di artisti ed architetti italiani contemporanei.Tale iniziativa, infatti, parte dal presupposto che esista tuttora – come di fatto esiste – in Sardegna un artigianato in grado di produrre ottimo materiale tessile adatto alla creazione di tappeti (secondo una metodologia collaudata da secoli di lavorazione artigiana), non solo; ma capace di adattarsi alle «decorazioni», molto libere e molto eterodosse, di artisti dell’avanguardia più recente nel nostro Paese.
L’artigianato sardo possiede una sua peculiare identità sviluppatasi in un territorio, non solo insulare, ma molto isolato – tanto etnicamente che culturalmente – dalla cultura continentale e proprio per questa ragione ha potuto mantenere intatte alcune sue caratteristiche tecniche e linguistiche. Purtroppo, in questa attività artigianale, come in quella di molte altre regioni, la «vis formativa» che in passato fu molto accesa e autentica, è andata smarrendo la sua originalità, per cui la costante ripetizione di motivi tradizionali ha finito per essere, coll’andare degli anni, soltanto una stanca imitazione di moduli stilistici ormai esausti.
I tentativi compiuti in passato per attivare e rinnovare questo artigianato (e mi riferisco qui soprattutto al settore dei tessili) sono stati molteplici ma per lo più abortivi. Tra i pochissimi che merita conto di rammentare, per quanto concerne il settore del tappeto, vorrei ricordare quelli di Maria Lai e dello scultore Italo Antico che, per un certo tempo, cercò di far realizzare da alcuni artigiani di Zeddiani, dei tappeti su suoi disegni originali, impostati su sistemi lavorativi autoctoni.
Se i tentativi passati non ebbero, disgraziatamente, molto seguito, c’è da augurarsi che l’attuale iniziativa possa averne di più, anche tenuto conto del fatto che gli artisti che hanno accettato di presentare due loro bozzetti per la realizzazione della nuova serie di tappeti appartengono quasi tutti alle ultime e più avanzate leve della pittura, scultura e architettura italiana.
A questo proposito sarà anche opportuno ricordare come i tentativi di realizzare dei tappeti sulla base di disegni o progetti di artisti contemporanei sono già stati numerosi in diverse regioni italiane e in diverse altre circostanze. E possiamo almeno citarne alcuni come: quelle della manifattura Bosmann che, in collaborazione con Mario Schifano, ebbe a realizzare alcuni tappeti (con lavorazione a nodo Senneh); quelle di Capogrossi e Arnaldo Pomodoro che nel 1963 disegnarono dei cartoni per tappeti realizzati poi a Beauvais; mentre, già nel 1953, Magnelli aveva disegnato arazzi e tappeti per alcune gallerie parigine (come Denise Renée). Finalmente, Mendini e Branzi si cimentarono essi pure nella realizzazione di alcuni lavori tessili, e Luciano Bartolini disegnò un tappeto realizzato dalla ditta Sawaya e Moroni nel 1986. Nell’impossibilità di ricordare tutte le iniziative succedutesi in Italia, mi limiterò a citare ancora alcuni altri tentativi da parte di artisti come Sottsass, Missoni, Dorazio, Carmi, Ferré, ecc.
Vediamo allora quali siano i criteri adottati dagli ideatori e organizzatori dell’attuale iniziativa. Ci troviamo di fronte alla presenza di ben 24 tappeti tutti realizzati da artigiani di Zeddiani (un paese dell’oristanese), e tutti basati su disegni e progetti espressamente eseguiti da artisti e architetti italiani contemporanei, in buona parte ben noti per la loro precedente attività artistica. Non spetta a me analizzare criticamente la particolare scelta di tali artisti, per alcuni dei quali concordo pienamente, mentre per altri parzialmente dissento.
È, comunque, assai lodevole l’idea di rivolgersi ad artisti dei nostri giorni di tendenze tra le più varie e tali da poter offrire, oltretutto, un vero e proprio panorama della attuale situazione artistica del nostro Paese. La peculiarità di questi tappeti – come appare tosto evidente – è quella di offrire un’eccezionale qualità artigianale (l’essere tutti realizzati manualmente con lane locali, attraverso il classico metodo «a stuoia», così che il risultato «tecnico» consente di raggiungere un livello notevole di perfezione esecutiva).
Per quanto poi riguarda una «critica» delle singole opere, mi limiterò ad accennare agli argomenti che mi sembrano più significativi circa la peculiare «natura» tecnico-estetica di questi prodotti. Mi sembra opportuno, pertanto, sottolineare quelle che si possono forse considerare le «costanti» o le norme che presiedono, o dovrebbero presiedere, alla costruzione di un’opera visiva che sia trasponibile sopra un tappeto. Anche se di regole e di norme – nel senso in cui queste vigevano in altri tempi – oggi non è più il caso di parlare, giacché l’arte si è svincolata da ogni automatismo auto – o etero – imposto, occorre, tuttavia, tener conto di alcuni fattori che si possono considerare «funzionali» in questo caso (come in tutti quei casi dove un prodotto del tipo artigianale presenti, oltre a elementi estetici, anche elementi di utilità pratica).
Ecco, dunque, come in un tappeto, oltre al grado di sofficità, di robustezza, di compattezza della trama, di non «stingibilità» ecc. – tutti requisiti inerenti al tipo di tessuto e di materiale usato su cui non è mio compito soffermarmi – esistono altri requisiti legati al tipo di «figurazione» impiegata. E vediamo quali: 1) ogni tappeto è fatto per essere «visto dall’alto» – a «volo d’uccello» – è questo un dato di fatto di cui il progettista non può non tener conto ed è per questo che i «pezzi» più riusciti saranno quelli dove le figurazioni – indifferentemente se naturalistiche, astratte o surreali, geometriche o «organiche» e informali – saranno state concepite come appunto destinate ad essere visionate in tale maniera (il che, ovviamente non significa che non si possano dare esempi di tappeti di grande interesse figurativo anche se non rispettanti questa esigenza; ma, in tal caso, il loro valore sarà dovuto piuttosto all’originalità dell’elemento «pittorico» che a quella d’una concezione funzionale del prodotto-tappeto). 2) Il tappeto deve essere concepito come passibile d’una veduta analoga, se non identica, rispetto ad ognuno dei suoi quattro lati (ad eccezione dei casi in cui si tratti di tappeti «in lunghezza» come nel caso di «passatoie» o delle note «preghiere» persiane-islamiche). Ecco perché, anche nella serie di tappeti qui presentati, i migliori – o almeno i più omogenei – risultano quelli che presentano una visualizzazione analoga da ognuno dei loro lati.
Oltre a queste due più significative esigenze, che permettono già di compiere una selezione tra i diversi tappeti presentati, vorrei ancora ricordare – senza soffermarmi su ogni singolo esemplare, il che oltretutto sarebbe superfluo – come questi diversi tappeti si presentino molto interessanti proprio per la varietà del loro «stile» e della loro progettazione. Alcuni di essi, infatti, sono decisamente analoghi ai dipinti dei singoli autori: sono, in altre parole, la vera e propria trasposizione sul tessuto dei moduli pittorici o plastici d’ogni artista (come nel caso di De Filippi, Veronesi, Tadini, Baj, ecc.). Altri sono invece dei tappeti dove l’elemento costruttivo-architettonico predomina ed è quanto avviene in molti di quelli progettati da architetti (come nel caso di Aldo Rossi, Cantafora, Natalini, De Lucchi, Mendini, A.R.P. Studio, ecc.). Finalmente, esistono dei tappeti dove l’elemento «decorativo» ha la meglio e in cui un genere molto nuovo di decorazione ha fatto sì che si siano evidenziate delle costellazioni ornamentali di tipo inedito, ma rispondenti perfettamente ai requisiti di un’opera tessile (come nel caso di quelli di Sottsass, di La Pietra, di Branzi, Minardi, Thun, Alinari, Mondino ecc.).
L’operazione intrapresa con tanto entusiasmo dall’A.R.P. Studio e Peter Pfeiffer, col patrocinio dell’I.S.R.E., mi sembra, in definitiva, quanto mai interessante e promettente. Speriamo, e ci auguriamo, che con questa iniziativa il tappeto artigianale sardo, e al tempo stesso tutto un settore dell’attività creativa dei nostri artisti e architetti contemporanei, possa trovare un’eco vivace tanto in Italia che all’estero.